Il mito leggendario del cavaliere Macedone
Tra le ipotesi leggendarie sull’origine e discendenza degli Aléxandros, tra i popoli greci trapiantati nel Sud d’Italia,vi è quella già citata sul condottiero Alessandro Magno (Mégas Aléxandros), fondatore dell’impero macedone, tra il 356 ed il 323 a.C. A questo mitologico “efebo biondo,non molto alto,dalla carnagione chiara”(Alexandros il semidio,in rivista Focus Storia,Milano ott.2014, n.96 p.38) si ispirò tale intuizione genealogica sulla progenie della Gens Alexandri (con sua tradizione orale, ma anche con simboli e nomi adottati,quale l’insegna del cavallo bucefalo macedone o l’uso di nomi personali della stirpe alessandrina o l’utilizzo nella blasonatura delle stelle ad otto/dodici punte a ricordo della “stella argeade” o “sole di Verghina”, logo della dinastia macedone degli Argeadi, le cui radici si facevano risalire al mitico semidio Eracle figlio di Zeus), specie nel corso del XVII° e fine XIX° secolo, onde dare maggior lustro alla famiglia con tal collegamento alla sua memoria (fu “valoroso come un eroe, potente come un Dio”) di principe filosofo (simbolo del sapere e del potere). Difatti, tra le più recenti riflessioni genealogiche dei d’Alessandro discendenti dal ceppo imperiale Macedone vi fu quella apparsa sulla rivista araldica “Il Patriziato” (anno VI,n.9) nel settembre 1903. L’autore del saggio, lo studioso prof.Fernando Lugaro-Tarantino, pubblicò detto articolo intitolato “Famiglia d’Alessandro di Pescolanciano, Origine dello stemma”, in cui dimostrò che il blasone di questo Casato fu inizialmente rappresentato dal “cavallo bucefalo nero, corrente in campo d’oro con un corno d’argento in fronte” (p.485),proprio per ricordare i nobili natali Alessandrini. Detto bucefalo impresso nell’arme dei d’Alessandro si ispirò al destriero antropofago dell’imperatore Alessandro, da lui cavalcato per circa sedici anni, come narrato dallo storico Arriano (F.Ripamonti, Storia delle Indie Orientali, T.I°, Milano 1825 p.102)secondo cui l’animale “morì quivi di vecchiezza, essendo presso che di trent’anni”. Si è ipotizzato appartenere detto equino alla razza proveniente dalla Tessaglia (regione greca da cui provenivano i Centauri), dove solitamente si marchiavano questi animali con la lettera greca Alpha, rappresentata nell’alfabeto arcaico da una testa di bue.Taluni narratori sostennero,invece, che “la forma della testa di questo animale si rassomigliasse a quella d’un bue, onde ne ricevette il suddetto nome, altri invece pensarono che questo cavallo fosse tutto nero con una macchia bianca sul fronte simile a quella che alcune volte si vede nella fronte dei buoi” (op.cit.p.103). Sia stato il marchio di provenienza o l’imponente stazza con fronte larga, narici distanti e profilo semiconcavo, la tradizione narrativa immortalò l’immagine del cavallo bucefalo (bous-kephalè:testa di bue) con il suo mantello di peli neri, una stella bianca sulla fronte(da cui l’immaginata rappresentazione dell’unicorno d’avorio) ed un occhio azzurro. Nel 342 a.C. re Filippo II, padre di Alessandro Magno, mentre era in ascesa sul trono della Macedonia intese così regalare il suddetto animale al figlio, dopo averlo acquistato da Filonico di Tessaglia per 13 talenti.L’indomabilità ed irrequietezza del destriero stavano convincendo re Filippo a restituirlo al precedente proprietario, allorquando il giovane Alessandro si accorse della fobia dell’equino nel temere la propria ombra. L’adolescente macedone montò, quindi, il quadrupede facendogli rivolgere il muso verso il sole per poi lanciarlo al galoppo. Plutarco, in merito all’evento, riportò nella sua opera “Vite Parallele” che “Filippo e i suoi rimasero dapprincipio silenziosi e preoccupati: quando però Alessandro voltò il cavallo e ritornò gioioso e fiero, tutti alzarono un grido di giubilo, il padre addirittura pianse di gioia e, quando Alessandro smontò lo baciò sulla testa dicendogli: Figlio cercati un regno che ti si confaccia, la Macedonia è troppo piccola per te”. Da allora Bucefalo accompagnò il condottiero argheade in tutte le sue imprese di conquista per oltre un decennio, portandolo fin in India, dopo avergli salvato più di una volta la vita.Difatti, secondo Aulo Gello nella sua opera “Notti Attiche”(opera che ispirò l’umanista Alessandro d’Alessandro del XV sec)si verificò che ,durante la battaglia dell’Idaspe nel 326 a.C., tra i macedoni di Alessandro (circa 11 mila uomini, di cui 5 mila cavalieri e 6 mila opliti) e l’armata del re indiano Poro della regione del Punjab, il destriero riportò ferite mortali e ,pur esausto, portò in salvo il suo cavaliere, garantendogli la vittoria.Coperto di sudore e sangue, l’animale si stese al suolo e morì per le ferite o per l’eccessivo sforzo, vista la sua anziana età. Bucefalo fu sepolto con gli onori militari presso una città poi a lui dedicata, Bucefala o Alexandria Bukephalos, oggi città indiana di Jalapur. Nei tre anni successivi di vita, il coraggioso condottiero Alessandro continuò la sua megalomane impresa ellenica (A.Montesanti, Alessandro Magno.La storia, il viaggio dell’ultimo eroe,Roma 2011) con la sua falange macedone (milizie dei militari professionisti ben addestrate e remunerate) e la cavalleria pesante, i celebri Hetairoi (“compagni”), facenti parte del ceto aristocratico sempre al fianco del re(simile alla classe politica e sociale degli eupatridi ateniesi, poi detti ippeis con la Costituzione di Solone, cioè cavalieri capaci economicamente di mantenersi un cavallo anche per le guerre), emulando fino alla fine le eroiche gesta di Achille, avo della madre Olimpiade.Dopo la morte dell’equino, l’imperatore “ne volle portare l’effige come insegna nel proprio scudo”. I di lui eredi diretti, Alessandro e Filippo, nonché quelli indiretti continuarono poi a far uso dell’immagine del cavallo bucefalo che probabilmente risultò adottato anche dai successivi imperatori di Bisanzio della famiglia dei macedoni,tra l’867 ed il 1025 d.C.,secondo il citato studioso Lugaro-Tarantino. Tra costoro, a detta dello stesso, vi fu Leone di Basilio I (890 d.C.) che volle, invece, come arma imperiale il “leone rosso”, per simboleggiare la di lui persona vestita “della porpora imperiale”, in campo d’oro, quale “trono di Costantinopoli dove egli stava assiso”. Basilio II (958-1025 d.C.) ordinò l’adozione dell’insegna inquartata del leone rampante e del cavallo bucefalo per rimarcare l’antica origine imperiale della stirpe dei macedoni. Bucefalo, il leone, le stelle argeadi sopravvissero nei secoli nelle insegne del Casato d’Alessandro nei rispettivi vari rami feudali siculi-napoletani, così come ancora sono visibili nello stemma ovale ottocentesco dei d’Alessandro di Pescolanciano all’entrata della cappella del castello.
La Passio del cavaliere martire romano
La Traditio cristiana sul martirio del soldato romano della Legione Tebea, Sant’Alessandro (seconda metà del III sec. d.C.-inizi del IV), divenne culto patronale del Casato d’Alessandro Pescolanciano da metà del XVII sec. Rifacendosi alle testimonianze delle Passiones Sancti Alexandri ed alla florida produzione agiografica del XIII e XIV sec. (tra cui le note riflessive sulle gesta del miles Alessandro del domenicano padre Pinomonte da Brembate o del francescano padre Branca da Gandino),il miles Thebanus (come riporta la lapide della basilica bergamasca alessandrina) fu un Signifer e primipilarius sacrae legionis (R.Alborghetti, Sant’Alessandro Martire e patrono della terra di Bergamo, Bergamo 2014), ossia un vessillifero e primipilo, cioè primo tra i capitani della Legione romana proveniente da Tebe in Egito. Detto Santo, sempre ritratto nei suoi panni militari con elmo ed armatura da legionario mentre tiene un vessillo con impressi i fiori di giglio (simbolo “di giovanile purezza di elezione”) poiché portabandiera-alfiere del suo comandante Maurizio, nei secoli è stato raffigurato sopra il suo cavallo in atteggiamento di virtuoso ed audace eroe dalla forte spiritualità e grande fede, tale da sopportarne il martirio. Secondo le varie fonti storiche, S.Alessandro morì tra il 287 ed il 305 d.C., durante l’epoca di dominazione imperiale degli Augusti Diocleziano e Massimiano, acerrimi nemici della religione cristiana che si era propagandata “con grande velocità anche tra i ranghi della nobiltà e delle milizie”. Quest’ultimo Ordo equester romano, tra l’altro, era collegato ad uno status sociale specifico, dove gli equites discendevano dalle milizie di cavalleria repubblicana, spesso elevatasi negli anni alla classe dei ricchi finanzieri ed amministratori della Roma imperiale (G.Forni, Il reclutamento delle Legioni da Augusto a Diocleziano, Mi-RM 1953).I nobili cavalieri romani si identificarono per il possesso di cavalli pubblici al compimento del 35esimo anno, nonché per il diritto – a detta dello storico Plinio il Vecchio – dello Jus anulorum aureorum, cioè dell’anello d’oro concesso dal Senato secondo i principi della Costituzione del 23 d.C. (con requisito indispensabile che gli equites dovevano essere possessori di censo equestre e godere di proedria da almeno tre generazioni). Ai vari diritti spettanti loro, tra cui i primi posti nei teatri e nei circhi, seguivano precisi doveri, quali il divieto di partecipare ad attività ignobili circensi e teatrali o il mantenimento di comportamenti dignitosi (la dignitas) e morali così come l’obbligo di matrimonio con esponenti del proprio rango. Si verificò, quindi, che la persecuzione dei cristiani “ebbe inizio dai fratelli che erano negli eserciti”(Eusebio di Cesarea, Cronaca, IV sec.), ai quali si impose il sacrificio agli Dei pagani o l’uscita dall’esercito e da ogni carica onorifica ricoperta (editto del 300 d.C.). Tra le Legioni Comitatensi toccò tale verifica anche alla Legione Tebea collocata, su ordine di Massimiano, presso i confini con la Galilea e le Alpi per la difesa dell’Impero dalle incursioni di tribù ribelli. Detta Legio prima Maximiniana Thebeorum, formata da soldati egiziani scelti e valorosi e molto stimata in Roma anche per il suo leggendario comandante Maurizio, venne massacrata da altri soldati romani ed arrestati i superstiti su ordine imperiale a seguito del loro diniego nel catturare i cristiani delle aree limitrofe a Saint Maurice nel Vallese. Il giovane Alessandro, i cui genitori – secondo Giovanni Labus – dovevano essere “di onorevole condizione”(seppur non annoverato come equites si può identificare come un caballatius in quanto combattente con cavallo oneroso), fu così arrestato e ,dopo rocambolesche fughe, fu nuovamente imprigionato e sottoposto ad interrogatorio davanti a Massimiano. La reazione di quest’ultima autorità, di fronte al suo eroico rifiuto di adorare le divinità pagane abbattendone gli idoli, fu la decapitazione del Santo (culto della “testa mozzata”).La Passio Alessandrina del martirio del Santo guerriero risultò poi tra gli argomenti poetici sull’eroismo religioso, a cui si ispirò la tradizione epica cavalleresca.
L’epopea cavalleresca delle Crociate nel ciclo del Santo Graal
Con la dominazione normanna nel sud d’Italia e la maggior affermazione del sistema politico-amministrativo territoriale del “vassallaggio comitale”, su modello “franco”, si andarono rafforzando idealismi e valori cavallereschi medioevali. Nel rapporto di concessione delle terre, gestite in autonomia,(“il feudo”) tra il dominus ed il vassallo vi fu l’obbligo del giuramento di fedeltà, con cui si assicurò un certo numero di servizi in termini di consilium et auxilium. Pertanto, vi fu l’obbligo di aiuto nel servizio militare,assistendo il Signore con le armi (scortarlo,fare la guardia al suo/i castelli -“estage”-, rispondere all’appello di partecipare a delle importanti imprese belliche -“ost”-, o a quelle meno rilevanti -“caballicatio”-), supportandolo nelle finanze (con elargizioni di denaro per le spese elevate, quali le partenze per le crociate o i matrimoni familiari o i riscatti da pagare) e nella giustizia. Le signorie di castello (castrum o castellum) furono così provviste di una guarnigione permanente di guerrieri (milites castri), con i quali venivano assicurate le funzioni di polizia e di difesa del territorio (J.Flori, Cavalieri e Cavalleria nel Medioevo, Torino 1999). Detto dominus del tardo medioevo,tra l’altro, proveniva spesso dal ceto aristocratico dirigente (La Curne de Sainte-Palaye, Memoires sur l’ancienne chevalerie, Paris 1829), sia esso di origine romano o gallo-romano o germanico o carolingio, con nobiltà trasmessa per via di sangue (fondata sulla parentela, come i “sippe” dei tedeschi o il “cousinage”dei francesi, oltre allo stile di vita, alla ricchezza posseduta, alla proprietà di terre fiscali detenute, all’esercizio del banno o professione militare). A costui fu affidato l’esercizio delle funzioni pubbliche accennate, nonché la gestione del patrimonio fondiario,dei castelli e fortificazioni (A.Barbero,L’Aristocrazia nella società francese del Medioevo, Bologna 1987). Tali feudatari, per la dignità del lignaggio del Casato d’appartenenza, s’imposero un codice comportamentale di fedeltà al sovrano/signore per la difesa del regno e della Croce con i suoi valori cristiani di sostegno al prossimo bisognoso.Questo rigido codice d’onore,fatto degli ideali di coraggio/lealtà/generosità, ispirò soprattutto gli esponenti “cadetti” delle nobili famiglie, che esclusi dal privilegio ereditario dei feudi e rispettivi beni patrimoniali,andarono ad ingrossare le fila della nascente cavalleria o classe dei miles (“Militia”) al servizio dell’autorità governativa e religiosa. Pertanto, nella società feudale fu alquanto sentita l’attesa di una condotta esemplare o di un contegno morale-cristiano con larghe donazioni caritatevoli oltre ad una protezione efficace da parte delle famiglie aristocratiche e loro cavalieri. Inoltre, il miles, sia esso signore o conte o principe o semplice nobile, poté contare su un gruppo fedele di milites, ossia guerrieri servitori con le armi. Detta élite guerriera, proveniente dal rango dei domini o dal sottolignaggio nobiliare, così come da classi subalterne arricchite e “libere”, si elevava a cavalleria con un rituale (particolare cerimonia d’investitura, dopo una veglia notturna di preghiere,in cui l’autorità reale toccava la spalla con la spada del nobile guerriero,con già alcuni anni provati di battaglia, consegnandogli gli speroni dorati e la spada, simbolo del servizio armato e della giustizia), acquisendo il cingulum militiae (F.Cardini, Alle radici della Cavalleria Medievale, Firenze 1982). Il cavaliere facoltoso, investito così dall’autorità sovrana del potere pubblico, provvedeva poi all’acquisto del cavallo, indispensabile negli spostamenti, oltre all’equipaggiamento ed addestramento militare, i cui insegnamenti venivano impartiti sin dalla giovane età allorquando come paggi e poi scudieri apprendevano anche le buone maniere di corte.
Il costoso equipaggiamento del cavaliere, costituito da pesanti armature, dal cappuccio di maglia (“camaglio”),dall’elmo, dalla sottomaglia imbottita (“aketon”), dallo scudo ed armi, comportò il necessario uso di cavalli robusti e veloci (“i destrieri”). Questo animale da guerra, pertanto, venne allevato e riprodotto nei feudi con l’impiego di selezionate giumente e grossi stalloni forti e vigorosi. Il cavallo da guerra indossò pure una speciale armatura (“barda”), originariamente in tessuto foderato poi in piastre metalliche, oltre alla sella in legno di faggio, rivestita di pelle e con staffe (L.Gautier, La Chevalerie, Paris 1884). La figura del destriero, che spesso aveva un nome come nel caso della spada personale, divenne così inseparabile dal suo cavaliere nel ciclo letterario cavalleresco, tant’è da essere così immortalata nella descrizione del citato mistico medioevale catalano: “tra tutti gli animali è il più bello, il più veloce, il più pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio, il più adatto a servire l’uomo”. La letteratura epico-cavalleresca, dal celebre poema della “Chanson de Roland” e varie “canzoni di gesta” dei paladini francesi del XII sec. al “Cantar de mio Cid” (1140), fissò poi la leggendaria immagine del cavaliere cristiano aderente o alla “cavalleria pesante” (con i feditori che attutivano la prima carica dei cavalieri nemici) o a quella “leggera” (con gli arcieri e balestrieri per le fulminie incursioni) e successivamente agli Ordini equestri.
“Se la nobiltà è una élite sociale, essa è anche una élite militare – ha scritto il Labatut – è resta assodato che la sua vera natura può essere compresa solo nel quadro degli ordini in cui la società è articolata. All'inizio del secolo XI Adalberone di Laon distingueva nella società tre ordini: l'ordine formato da quelli che pregano, e cioè i religiosi; l'ordine formato da quelli che combattono, e cioè i nobili, e, infine, l'ordine formato da quelli che lavorano, comprendente poi tutti gli altri che non sono né religiosi né nobili. Nel secolo XII – prosegue il Labatut – l'ordine nobiliare assume contorni precisi e nel secolo XIII la sua fisionomia è ormai definitivamente precisata. La guerra, che si pensa fatta in generale a cavallo, costituisce un dato inerente alla condizione nobiliare e, del resto, il mestiere delle armi viene appreso tramite una vera e propria educazione militare quanto mai severa a cui pone termine il rito significativo della vestizione cavalleresca. Infatti le due nozioni di nobiltà e di cavalleria sono tra loro strettamente collegate” (J.P.Labatut, Le nobiltà europee, Bologna 1982,pp.7-8).
Con le guerre “sante” e le Crociate dell’XI° secolo, i cavalieri dei vari Stati d’Europa passarono ad essere soldati servitori della Chiesa, ispirati dagli ideali mistico-avventurosi per la liberazione del sepolcro di Cristo dagli infedeli. All’appello di Urbano II, difatti, l’aristocrazia europea rispose tra il 1095 ed il 1096 in modo partecipativo alla Crociata in difesa del Cristianesimo. Fu, così, liberata la “Città Santa” il 15 luglio 1099 da Goffredo di Buglione, che morendo nel 1100 fece subentrare il di lui fratello Baldovino, quale sovrano del regno di Gerusalemme. Detto regno con il suo sepolcro di Cristo necessitò di continua difesa nei secoli avvenire per le minacce degli islamici, tant’è che oltre alle altre sette spedizioni di armate crociate furono create delle milizie permanenti a salvaguardia delle strade e dei luoghi del pellegrinaggio religioso: gli Ordini monastico-militari. La teologia occidentale agostiniana e di San Bernardo di Chiaravalle (con la sua opera De Laude novae militiae ad milites Templi liber) legittimò l’azione bellica condotta per “giusta causa” del malvagio, quale vittoria del Bene nella quotidiana lotta contro il Male (“I cavalieri di Cristo combattono…le battaglie del loro Signore e non temono né di peccare uccidendo i nemici, né di dannarsi se sono destinati a morire: poiché la morte, quando è data o ricevuta nel nome di Cristo, non comporta alcun peccato e fa guadagnare molta gloria. (S.Bernardo, De Laude).
Tra gli antichi ascendenti del millenario ramo dei d’Alessandro (De Alexandro, Ab Alexandro, Alexandri) si annovera il citato Guido o Guidone, barone di Roccagloriosa (Cilento) per la sua partecipazione alla terza Crociata (1187-1192) in qualità di Miles,cavaliere rossocrociato. Costui, giovane feudatario, fu figlio di Pietro II d’Alessandro, appartenente al primo ceppo dei de Alexandro del Principato Citra, come da “documento del 1179, conservato nell’Archivio di Cava, transuntato così nel Liber primus familiarium: Petronus, qui dicitur Mannarinus filius quondam Amati, qui fuit filius Leonis filij Petri de Alexandro Vallense de emptione domorum intus civitatem Salerni, quae fuerunt Domini Iannis Episcopi Sarnensis” (F.A.Ricciardi, Marigliano ed i comuni del suo mandamento, Napoli 1891,p.633). Guido de Alexandro fu Signore (Domus) della terra di Roccagloriosa con suo castello nella seconda metà del XII secolo, probabilmente per concessione vassallatica (dal normanno Simone, figlio di Ruggiero II, subentrato nella baronia del Cilento nel 1152), dopo i conti Mansone (figlio di Leone il normanno, nel 1110) e Gisulfo. Al momento dell’acquisizione del feudo, nonché della sua partecipazione all’impresa crociata, il suddetto Guido doveva essere in possesso di tutti i requisiti dettati dalla disposizione del 1154 di Ruggiero II, “Le Assise d’Ariano”, con la quale si esigeva, da coloro che volevano farsi armare cavalieri, la prova di avere un cavaliere tra i propri antenati. Tale norma reale era in linea con gli ordinamenti di altre monarchie d’Europa (Federico Barbarossa, ad esempio, impose nel 1186 l’esclusione dalla militia dei figli dei preti, diaconi e rustici con la Constitutio contra incendiaros). Pur in età giovanile fu “tra i nobili del Regno normanno riuniti da Re Guglielmo, detto il Buono, nel 1187 per partecipare alla terza Crociata. Questi Cavalieri Crociati furono chiamati per liberare Gerusalemme, conquistata dai Turchi del Saladino. Papa Gregorio VIII predicò la levata degli scudi contro l’Infedele, designando alla guida dell’Armata Cristiana l’Imperatore Federico Barbarossa, oltre al Re Filippo II di Francia e Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra. Guido, come feudatario normanno nel rispetto delle consuetudini templari, rinunciò all’appannaggio feudale per la Precettoria di Lama Cipriandi in terra di Apulia, al rientro della Crociata” (Manoscritto, Memorie delle Mappe storiche sui feudi, quelli Rustici, gli Immobili ed i Beni Mobili e Cappelle Mortuarie dell’Illustre Casato dei d’Alessandro, Pescolanciano metà del Novecento). Difatti, è noto che la prima fonte storica testimoniante il ruolo baronale e la partecipazione del d’Alessandro alla terza Crociata è l’opera dello storico Carlo Borrelli edita nel 1658 (Vindex Neapolitanae Nobilitatis Caroli Borrelli, Neapolis 1658,p.56) e nota come “Catalogo dei Baroni”. Guido d’Alessandro è citato tra i “Barones Regni”, sotto il feudo di Roccagloriosa, “sub Gugliel.II Rege”, oltre ai nomi di Pietro Biviano, Pietro di Guaimario, Lando, Roberto e fratello Lando, Landolfo, Guglielmo Fimiano, Guido Capodimine e Raul con i rispettivi milites. Come da menzionata costumanza militare vassallatica normanna, il barone Guido de Alexandro accolse l’appello di reclutamento per motivi religiosi e partecipò, a detta del Borrelli, alla spedizione dei croce-segnati con il seguito di “villanos”, cioè suoi servienti milites armati dallo stesso, seppur non forzatamente obbligato al servizio di guerra per il feudo concessogli dal suo sovrano. Tra l’altro, i feudatari vassalli potevano farsi sostituire da un certo numero di cavalieri in proporzione all’entità della baronia (D.Nicolle, La Terza Crociata, Milano 2012). La partenza per nave, che secondo le cronache avvenne dalla Sicilia (seppur talune milizie potrebbero essere salpate dalla Puglia, dove i porti erano facilmente raggiungibili ed in direzione della Terra Santa) tra la fine del 1187 e la primavera del 1188, fu voluta da re Guglielmo II per aiutare Tiro, Tripoli ed Antiochia. Vi fu, quindi, una preparatoria convocazione dei baroni (circa 300) a Napoli in presenza di re Tancredi, nipote illegittimo del citato Guglielmo, morto a novembre del 1187 senza figli. Questa compagnia d’élite di aristocratici in arme fu la prima ad effettuare azioni concrete per la liberazione di Gerusalemme e suo regno crociato, caduto nelle mani degli eserciti islamici (Siriani,Egiziani etc) del sultano Saladino in nome della Jihad (sforzo fisico per difendere l’Islam). Tali “infedeli” espulsero e ridussero in prigionia e schiavitù i cattolici latini residenti (circa 100-120 mila franchi), ad eccezione di quelli rifugiatisi nella contea di Tripoli, nel principato d’Antiochia ed a Tiro. In quest’ultimo avamposto si era ritirato il conte Raimondo di Tripoli, sopravvissuto alla battaglia di Hattin con il sostegno, prima, della menzionata flotta siciliana normanna, poi, di altra pisana accorsa nel 1189. Costui cercò di negoziare la difesa di Tiro con il Saladino, seppur intervenne Corrado di Monferrato per interrompere le trattative. In tale circostanza, probabilmente, il miles Guido de Alexandro rimase al servizio del designato re di Gerusalemme, Enrico III conte di Troyes, dopo la morte di Corrado successore di Guido di Lusignano. Il sultano Saladino tenne sotto assedio quest’ultimi stati cristiani, nel mentre fu occupato a conquistare altri territori di confine amministrandoli su modello militare e mantenendo alleanze con l’impero Bizantino. Difatti, quest’ultimo regno, governato dall’imperatore Isacco II Angelo, era in declino sia dal lato economico che militare, tanto da negoziare alleanze con le varie tribù turche dei paesi confinanti o occupati (Balcani, Ungheria, Bulgaria) dopo la rivolta del 1186 capeggiata da Bulgari, Valacchi e Cumani.Causa contrasti tra l’impero Bizantino e quello germanico (il primo sostenne le città dell’Italia settentrionale nella lotta per l’autonomia dalla Germania, mentre quest’ultima incoraggiò le indipendenze dei principati nei Balcani da Bisanzio), l’imperatore Federico I Barbarossa, che nel marzo del 1188 aveva “preso la Croce”, occupò tra l’agosto e novembre 1189 la città di Plovdv, onde poter attraversare con i suoi eserciti i territori bizantini, visto l’iniziale dissenso di Isacco II Angelo, ed ottenendo anche il trasporto sullo stretto dei Dardanelli. Anche re Riccardo Cuor di Leone, con il padre plantageneta Enrico II, “presero la Croce” tra il 1188-89, seppur la spedizione inglese partì da Vezelay con gli eserciti francesi di re Filippo II Augusto solo nel luglio del 1190, fermandosi nell’inverno 1190-91 a Messina. Mentre i contingenti crociati ritardavano la marcia per la Terra Santa, con divisioni interne sulla conduzione dell’impresa (poi superate dalle capacità militari e carisma di re Riccardo I Cuor di Leone che riuscì a riunire tutte le forze cristiane), vi fu l’improvvisa morte dell’imperatore Federico Barbarossa per annegamento, il 10 giugno 1190, nell’Armenia Cilicia (l’esercito tedesco fu riorganizzato dal duca Leopoldo d’Austria nella primavera del 1191), che favorì così il Saladino nei suoi assedi alle roccaforti cristiane (Belvoir nel marzo 1188, Bagras nel settembre 1188, i castelli di Krak e Shawbak nel dicembre 1188,Belfort nel 1189) ed occupando Acri nel 1189 fino al giugno del 1191. Da Tiro un piccolo esercito di crociati (400 cavalieri e 7000 fanti), tra cui il cavaliere Guido de Alexandro “nella sua qualità di capitano comandante la Legione dei cavalieri crocesignati” (S.Acierno,Famiglia d’Alessandro di Pescolanciano, su rivista “Il Patriziato”, maggio 1903, p.291), al comando di re Guido di Lusignano, con l’appoggio della flotta pisana, affrontò fuori Acri gli eserciti del Saladino (il 28 agosto 1189), scontro che proseguì fino all’estate del 1191 con l’appoggio anche del contingente francese, comandato dal menzionato Enrico III di Champagne.L’8 giugno 1191 da Messina raggiunsero Acri anche le 25 navi di re Riccardo d’Inghilterra e suo esercito che con le truppe di Filippo Augusto ed il contingente crociato tedesco (guidato prima da Federico di Svevia poi dal duca Leopoldo d’Austria nella primavera del medesimo anno) assediarono la roccaforte nel luglio. L’attacco massiccio dei crociati fece sì che la guarnigione musulmana di Acri si arrese il 12 luglio 1191 e furono issati gli stendardi anglo-francesi (quello del duca Leopoldo fu strappato dai soldati di re Riccardo e buttato giù dalle mura) con l’ordine di eseguire il massacro dei prigionieri, causa il mancato riscatto e restituzione della reliquia della Vera Croce. Gli eserciti crociati (fanteria e cavalleria bretone, normanna, angioina oltre ai Templari ed Ospitalieri), sotto il comando di re Riccardo (re Filippo aveva preso la via del ritorno, pur lasciando la maggior parte delle truppe in Palestina), marciarono verso Arsuf nel settembre del 1191, scontrandosi con l’esercito islamico del Saladino. Dalle note biografiche tramandate presso il Casato d’Alessandro risultò in questa circostanza che il nobile “fratello cavaliere” Guido de Alexandro aveva avuto la sua conversio per il servizio alla Chiesa ed ai deboli, prendendo i voti monastico-militari ed indossando l’abito con la croce rossa appuntata (simbolo della disponibilità al martirio e del rapporto con la Città Santa), a seguito di un’investitura iniziatica con la benedizione del Cruce signatus della Militia Christi (Guido seppur sposato nella tenera età fu ammesso nell’Ordine con normativa speciale allora in vigore).Lo stesso, difatti, si trovò tra i cavalieri Templari, guidati dal Gran Maestro Robert de Sablé (succeduto in quell’anno a Gerard de Ridefort, ucciso nel 1189), i quali insieme alla cavalleria bretone ed angioina difesero l’ala destra della suddetta marcia crociata. L’ala sinistra e la retroguardia, invece, era composta dai fiamminghi e francesi, nonché dai cavalieri del Regno di Gerusalemme, comandati da Giacomo di Avesnes, oltre ai cavalieri Ospitalieri, sotto la guida del Gran Maestro Garnier di Naplouse (Ambroise, L’estoire de la guerre Sante, Parigi 1897). Questi ultimi con il maresciallo degli Ospitalieri dettero inizio all’attacco, come descritto dal poeta Ambroise, scrivano del re Riccardo: “Uno dei due era un cavaliere, il Maresciallo degli Ospedalieri l’altro era Baldovino di Corron, che era coraggioso come un leone e un compagno del re d’Inghilterra che l’aveva portato con lui.Essi iniziarono l’attacco chiamando Dio e urlando per San Giorgio. Poi gli uomini di Dio guidarono i loro cavalli verso il nemico”. I musulmani subirono una pesante sconfitta con ingenti perdite di soldati e dei reggimenti di élite, tanto da accettare una trattativa pacifica di negoziazione. I crociati, comunque, conquistarono anche Ascalona e dopo altre scaramucce a Giaffa contro gli islamici ripresero i negoziati con quest’ultimi con un accordo finale di tregua nell’ottobre 1192.
La rinuncia ai beni feudali (come da consuetudine delle regole canoniche volte alla castità, obbedienza e rifiuto di ogni proprietà per la povertà), sull’esempio del conte di Champagne (costui seguì il suo ex vassallo, Ugo di Payns, arruolandosi tra i cavalieri di Cristo), di Roccagloriosa (la “signoria di castello”), forse liquidata per finanziare la partecipazione alla Crociata, permise al frates Guido (da guerriero si era elevato a cavaliere pauperes miles Christi) di vivere per altri anni in questi luoghi della Cristianità al servizio dell’Ordine Templare, condividendo con i fratelli d’arme la dignità cavalleresca e secondo i principi della solidarietà guerriera e sociale del ritterliches Tugendsystem (sistema dei valori cavallereschi).Detto Guido ebbe così una vita dedicata alla Fede e Pax Dei, al servizio di spada pro defendenda iustitia, allorquando con la preghiera giornaliera si apprendevano i nuovi metodi di combattimento a cavallo, quale la carica con la lancia (“tecnica a lancia tesa”) tenuta dalla mano destra sotto l’ascella in posizione orizzontale fissa (vedi arazzo di Bayeux del 1086) e lungo l’avambraccio, tanto decantata dalla Chansons de geste(questa nuova tecnica rivoluzionaria della carica a briglia sciolta si basò sull’urto frontale impetuoso, volto a disarcionare l’avversario nell’impatto, richiedendo un addestramento e disciplina nel procedere a ranghi serrati e compatti in uso nei tornei). La sua rinuncia a tornare a casa, dopo aver pregato sulla pietra del Santo Sepolcro, per supportare lo stabile insediamento cavalleresco in Terrasanta al servizio dei pellegrini lo portò a trasferirsi ad Acri presso la nuova “casa capitana” dei templari, poiché la magione del Tempio di Salomone in Gerusalemme era tornata ad essere la moschea di Al-Aqsa sotto gli islamici.In quegli anni di fine XII secolo Guidone d’Alessandro abbracciò così la regola di S.Bernardo (formalizzata nella sua opera “In lode della nuova Milizia” ed approvata nel 1128 dal concilio di Troyes) diventando quel cavaliere, così descritto dal medesimo Santo: “Più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, questi combattenti uniscono alla mansuetudine del monaco il coraggio del cavaliere…che ornano il Tempio di Salomone di armi più che di gemme, di scudi piuttosto che di candelabri: avidi di vittoria non di fama, di battaglie non di pompa, alieni da discorsi inutili, da attività senza scopo, da risa smodate, aborriscono dalle chiacchiere come quelli che hanno in dispregio la verità”. L’immagine del monaco-cavaliere della “Nuova Milizia” travalica quella ideale di Cluny, molto simile al modello decantato nei romanzi “cortesi”, che cristianizzò la forma della cavalleria mentre la sostanza rimase “barbara e acristiana” nei suoi contenuti sfarzeschi, mondani e di vanagloria (la militia saeculi). Il nuovo cavaliere non doveva curarsi di coprire “di seta i cavalli…di non so che genere di straccetti colorati le corazze; dipingere lance, scudi e selle; ornare d’oro, d’argento e di gemme le briglie e gli speroni”.Le sue armi, di solo ferro puro e senza ornamenti, dovevano servire a combattere contro i pagani (una necessitas contro il malicidium) ed il peccato, morendo con giustizia per la salvezza dell’anima. L’amor cortese del miles si trasformò, così, nel culto bernardiano della Vergine o Nostra Signora (la dama superiore inattingibilie, a cui dedicare il proprio servizio), tanto da raccogliere diverse nuove vocazioni anche tra personaggi di rilievo dell’aristocrazia europea dell’epoca. Le vesti,l’arma e le gesta dei nobili cavalieri divennero, quindi, simboli di virtù e requisiti cristiani:l’allegoria della spada fu il gladio dello spirito, l’elmo la fede ed altra simbologia mistica trattata da Raimondo Lullo nella sua opera Libre de l’Orde de cavayleria. Infine, nonostante i precetti per una vita povera, l’Ordine del Tempio raccolse molte cospicue donazioni provvidenziali, sia in denaro liquido che in beni immobiliari e fondiari(il tesoro del Graal), ottenendo per la solerte efficienza ed onestà la gestione d’importanti somme di denaro e ricchezze pubbliche in taluni regni tanto da favorire una rete creditizia (con l’utilizzo di lettere di credito di trasferimento del denaro a distanza) di questi “primi banchieri” dell’area euro-mediterranea.Tale attività finanziaria fu in seguito la causa della fine dell’Ordine, poiché fu concesso un prestito,mai rimborsato, di 400 mila fiorini d’oro dal tesoriere del Tempio di Parigi al re Filippo IV di Francia, fautore della soppressione con la bolla di papa Clemente V nel 1312-14 nonostante gli appoggi politici ed alleanze godute presso i Veneziani,Pisani, Francescani ed Angioini di Napoli (F.Cardini, Gli Ordini cavallereschi, una grande epopea, in Medioevo Dossier, Anno 3 n.3/2000, Milano, p.46).
Guido de Alexandro, in età avanzata, fece rientro agli inizi del XIII sec. nel suo regno di Sicilia, ormai dominato dal giovane re Federico II di Svevia (1198-1250). Era consuetudine che i milites Christi rientrati dalla Palestina “..erano pochi, non portavano armi ed erano spesso anziani o mutilati…mandati nelle Case cismarine come in una specie di riposo, alla fine del loro servizio e negli ultimi anni della loro esperienza di questa terra”(F.Cardini, I segreti del Tempio, Firenze 2000, p.15). Poco dopo che il diciottenne sovrano degli Hohenstaufen nel 1212 fosse eletto, con l’intercessione di Papa Innocenzo III, re dei Germani e re dei Romani, si rinviene notizia che Guido si trovava in terra di Apulia con l’incarico di “precettore di Lama” (F.Bramato, Storia dell’Ordine dei Templari in Italia, Roma 1991, p.74). Difatti, costui, insieme ad altri precettori, ottenne nel 1213 mandato dal Capitolo della provincia di Apulia-Terra di Lavoro dell’Ordine del Tempio (che fu presieduto da Pietro de Ays, magister domus Templari, e si riunì presso la chiesa Ognissanti di Trani) per occuparsi di una controversia riguardante dei terreni spettanti alla domus di Foggia. La leggenda vuole che detto Guido fu custode di un ricco tesoro raccolto, forse in Terra Santa, goduto poi dai suoi discendenti.
Altro monaco-cavaliere del Casato d’Alessandro fu il rossocrociato Lando de Alexandro, familiare del suddetto Guido,che fu citato,insieme al frate Giovanni di Lorenzo oblato, a Giovanni Cono oblato, Pietro Crello,Pietro Sonello e Nicola de Mattia (F.Bramato,Op.cit., p.116),quale componente della comunità templare della chiesa di S. Paterniano di Ceprano, alla quale Carlo I d’Angiò nel 1269 aveva concesso l’esenzione dal divieto imposto ai cittadini di Ceprano di entrare nel regno di Sicilia (la medesima comunità ricevette poi nel 1292 indulgenza di un anno e quaranta giorni “pro ecclesia hospitalis Sancti Petronyani domus militiae templi de Ceprano, Verulane diocesis” in occasione della festività del Santo titolare).
La romanzata Arte cavalleresca della Spada, tra il XIII ed il XIV sec.
La regnanza Sveva degli Hohenstaufen introdusse la figura del cavaliere-giustiziere esecutore della legge reale sui territori del reame siculo-pugliese nella prima metà del XIII sec. Il miles così oltre ad occuparsi della gestione feudale patrimoniale e militare, assolse la funzione giudiziaria di applicare e fare rispettare la legge. Inoltre, re Federico II riconfermò il diritto ereditario del titolo nobiliare di cavaliere con l’editto del 1231, in vigore per i regni di Sicilia e Germania, basandolo sul principio inviolabile che “nessuno acquisirà rango di cavaliere che non sia di famiglia cavalleresca se non per grazia di nostra speciale licenza e mandato” (R.Barber, Il mondo della Cavalleria, Milano 1974,p.27). Lo stesso sovrano ordinò ai baroni del regno “di presentare a revisione, nel tempo prefisso, le concessioni e privilegi pretesi”, onde evitarne la perdita al fine di limitare il potere di quei feudatari ostili ed usurpatori di terra. Fu anche sancita la conseguente demolizione di “tutt’i forti e i castelli fabbricati da’ baroni dopo la morte di Ruggiero”(V.Morgigni Novella, Federico II settimo Re di Sicilia e di Puglia, in Poliorama Pittoresco, T.11,1839, p.93). Risultò, quindi, che l’antica tradizione cavalleresca ellenico-romana del rango di appartenenza con suo status economico continuò così ad identificarsi nella funzione dei bellatores, in cui si divideva la società medievale, oltre a quella degli oratores e laboratores (F.Gardini, Il guerriero e il cavaliere, in L’uomo medievale, a cura di Le Goff, Roma 1995,p.84). Nel corso del XIII e XIV secolo il Casato d’Alessandro (De Alexandro, Ab Alexandro, Alexandri) continuò ad annoverare vari cavalieri dediti all’uso della spada per i propri sovrani e per la Santa Croce. Tra i feudatari del Giustizierato di Terra di Lavoro-Contado di Molise (creato nel 1221 con sede della Corte Generale in Capua e Napoli), che furono a servizio di re Manfredi di Svevia (1254-66) vi fu il dominus Petrus de Alexandro de villa Mugnani, figlio di Riccardo (C.Borrelli, Vindex Neapolitanae..op.cit. p.172), nel 1260. Il casale napoletano di Mugnano, nella diocesi di Nola, passò, tra l’altro, di proprietà anche alla Santa Casa dell’Annunziata. Con la dominazione angioina(1266-1442) nel sud d’Italia, l’atavica organizzazione feudale restò invariata, seppur Carlo I° d’Angiò, re di Napoli (1285-1309) favorì la salita dei baroni francesi. Diversi cavalieri-condottieri locali servirono questa dinastia (Gambatesa,Monforte, Caldora etc), che consolidò il loro potere per tale fedeltà. Ciò avvenne anche per Angelo d’Alessandro, figlio di Guidone, che impersonò quel cortese miles valoroso e leale dalle tante virtù etico-cavalleresche decantate dai poemi contemporanei in lingua d’Oc del ciclo bretone (dalle saghe celtiche alle imprese arturiane dei cavalieri della tavola rotonda). La spada dell’avventuroso Angelo, Consigliere e poi Luogotenente del regno di Napoli nella seconda metà del XIII sec., fu posta con onore al servizio di re Carlo per il rispetto delle leggi e l’affermazione della Giustizia.Infatti, così lo descrisse Scipione Mazzella nella sua opera: “la famiglia d’Alessandro (del sedile di Porto), antica Napoletana, della sua Nobiltà e antichità insieme, ne fa fede il Re Carlo I peroché in un privilegio, che fa ad Angelo d’Alessandro suo Consigliere, fra le altre parole dice: Tanta enim fuit fides magnifici militis e Consiliarij nostri Angeli de Alessandro neapolitani qui non degener fuit a suorum maiorum nobilitate, ideo tanto merito dignus est (S.Mazzella, Descrizione del Regno di Napoli, Napoli 1601, p.748). La fedeltà (fides), il valore (prouesse), la saggezza (saggesse) sono le virtù che accompagnarono il prode cavaliere Angelo nel corso della sua vita, tenendo alto il lignaggio della famiglia. E’ anche un’epoca dove la figura del miles non è più quella dell’ardente guerriero combattente per la Reconquista e la Cristianità delle chansons epiche, bensì è l’arturiano eroe-cavaliere “errante” sempre alla ricerca di gesta avventurose solitarie (i vagheggiati duelli con draghi, mostri, maghi ma anche concrete caccie di belve feroci, tornei e giostre) ed appartenente alla categoria degli iuvenes, ossia i giovani novizi cavalieri in cerca di affermazione sociale anche tramite buoni matrimoni. I citati giochi militari (Hastiludium) di questi cavalieri, che nel corso del XII e XIII sec. fecero parte della cavalleria o truppa scelta degli eserciti, divennero momento di addestramento dell’arte militare per le crociate (si apprendevano le tecniche e tattiche di base, dalla formazione “a cuneo” a quella “a siepe”, potenziando forza fisica e destrezza equestre) molto attesi e seguiti dall’aristocrazia,quale momento ludico-festivo, mentre la Chiesa inizialmente fu proibizionista per poi accettarli sotto papa Giovanni XXII nel 1316.La fama di questi momenti ludici di esibizione militare(trattandosi di veri metodi di combattimento da guerra) incentivò nel ‘300 il nascere di una letteratura specifica sulle giostre con dettagli sulle norme e le insegne (J.Brete scrisse Le Tournoi de Chauvency nella seconda metà del 1200), così come dei trattati tattico-strategici dell’arte militare (come il De re militari di Vegezio). Il torneo rappresentò una forma di laboratorio per sperimentare tecniche e tattiche guerresche, come per la carica di massa a lancia tesa. Inoltre, le signorie feudali dedicarono molta più attenzione alle proprie scuderie di cavalli, migliorando e potenziando gli allevamenti anche con atti di sopruso. E’ il caso, infatti, del feudatario Roberto di Molise, che in epoca angioina impose l’obbligo di cessione di “polledri equini” ai proprietari di “iumenta”, tanto da sollevarne lite come da documentazione del 1277, la Pancarta Campobassana o Statuti Robertini.
La razza equina in uso era quella del “cavallo italico” di costituzione fisica robusta e taglia piccolo-media (1,50 al garrese), che veniva fatto accoppiare con lo stallone turco-berbero di docile comando e versatile nelle attitudini.Si rende noto poi che i cavalieri davano un nome ai propri cavalli, mentre circa il loro valore e costo d’acquisizione del cavallo da guerra è stato annotato come aumentò tra il IX e XI secolo, passando dal valore pari a 4 buoi a quello di 40-200 soldi a seconda della razza,stazza ed area territoriale (J.Flori, Op. cit., p.109). Una stima analoga figurò su un gruppo di “iumenta”, rientranti nella “concessione in perpetuo” (A.Ambrosio, L’erudizione storica a Napoli nel Seicento, i manoscritti di interesse medievistico del Fondo Brancaccio della Bibl.Naz. di Napoli, 1996, p.127) fatta da Pandolfo di Fasanella (forse Fasano di Brindisi?) a Nicola de Alexandro ed ai suoi eredi nel 1275, regnando Carlo I d’Angiò.Costui risulterebbe citato nel 1265 come “notarii Petri, filli sui” (F.Filangieri, I registri della Cancelleria Angioina, Vol,II, Napoli 1968, cit.474 p.124). Lo stesso Nicola d’Alessandro si potrebbe, tra l’altro, identificare in quello citato dal genealogista Montecco Erodoto nella pagina dedicata alla famiglia d’Alessandro (Manoscritto delle Famiglie del Regno di Napoli d’incerto autore, Napoli 1697), il quale fu noto per la carica di “Mutuatore”,probabile possessore di una consistente liquidità ereditata dal citato templare Guido/Guidone (entrambi figli di Pietro) a tal punto da essere in grado di erogare un credito di 10.000 once d’oro al suo re Carlo I d’Angiò durante il suo regno siculo-napoletano (1282-85).
In questo periodo del XIII, XIV sec. figurano altri esponenti del Casato che occupano ruoli di fedeli servitori della monarchia Angioina, come Busenzio de Alexandro, “prepositus equorum Curie in Andria” nel 1270 (R.Filangieri, Op.cit., Vol.III, Napoli 1968,p.135) o Carlo, figlio del menzionato Angelo, che “fu Giustiziere di Calabria” (B.Aldimari, Memorie delle famiglie imparentate con la famiglia Carafa, Vol.IV, Napoli 1691, p.372), così come Bartholomeus de Alexandro, nunzio Giustiziere “quandam pecunie quantitatem in R.Camera assignant” tra il 1275-77 (R.Filangieri, Op. cit., Vol.XIII, p.142), nonché Iohannes (Giovanni) de Alexandro, barone di S.Giorgio intorno al 1285, già “Mutuatore” d’Isernia, il quale insieme allo zio Gualterio furono menzionati fra i “Baroni del Regno” di cui venne ordinata la rivista in S.Germano da re Carlo II d’Angiò nel 1291 (Registro Angioino, n.54, Carolus II,1291 F.104, citato nel repertorio compilato dal Griffo).Lo stesso figlio di Giovanni, Franciscus de Alexandro è citato con Gualterius tra i baroni e feudatari contribuenti “pro Iustitiario Vallis Gratis” per 20 once d’oro oltre a “personaliter equis et armis ac alio militari apparatu” (R.Filangieri, Op.cit., Vol. XIII, p.221). Vi furono anche diversi Erari della città di Napoli: Antonio I,sotto re Roberto d’Angiò (1309-1343), il di lui figlio Giovanni II nel 1338 (Registro Angioino 312, Robertus, 1337-38,f.45t), il quale fu anche Luogotenente del padre al tempo della regina Giovanna I (1343-81), così come Antonio II, figlio di quest’ultimo che ricevé la stessa carica nel 1343 dalla regina Giovanna II (Registro Angioino 337,1343-1344,B f.15t. L’incarico fiscale nel Casato d’Alessandro, comunque, si accompagnò al ruolo feudo-baronale ed ai rispettivi adempimenti economico-militari collegati al possesso della proprietà terriera, mentre in ambito cittadino si accrebbe il lignaggio familiare con suo potere presso la Corte Angioina, seppur si avviò un graduale abbandono del mestiere delle armi e del vivere della propria spada. Tra gli ultimi cavalieri di Casa d’Alessandro, legati alla dinastia Angioina si annovera Giovanni III/Giovannello, maresciallo del Regno di Napoli e Giustiziere degli Scolari, intorno al 1417, nonché barone di Casalnuovo, già Camerario di Calabria e Capitano di Tropea. Fu alquanto attivo nella beneficenza ai bisognosi, per il tramite della Casa della SS.Annunziata in Napoli, ove fu Governatore nel 1433 per il sedil di Popolo.