L’epoca aragonese-spagnola
L’antico codice comportamentale e le consuetudini dei valorosi cavalieri sopravvissero alla fine dell’epoca medioevale anche attraverso gli Ordini militari cavallereschi, escluso quello del Tempio soppresso nel 1312, nonostante il verificarsi di due stravolgenti avvenimenti: la scoperta delle Americhe e l’uso della polvere da sparo nell’armamentario bellico. Nel XV sec. la nobile cavalleria medioevale si ritrovò, così, ad essere inadeguata ed obsoleta sul piano militare nelle sue formazioni, tanto che gli eserciti nazionali sostituirono gli schieramenti di cavalleria “pesante” con altri di cavalleria “leggera”, formati da reparti di archibugieri e moschettieri a cavallo. L’uso delle armi da fuoco cambiò, quindi, l’arte della guerra, tant’è che ebbe fine il combattimento eroico individuale ed a seguire i tanti ideali dell’onorata spada. Il medesimo decadimento del valore del titolo cavalleresco,durante il regno Aragonese (1442-1501) nel sud d’Italia, ridotto a semplice onoreficenza fu conseguenza dei tempi a tal punto da condizionare illustri Casati napoletani nell’indirizzare i propri eredi verso carriere non militari-mercantili e più giuridiche-amministrative. Il fiorire delle Università degli Studi in tale periodo assicurò ai giovani rampolli delle famiglie benestanti il mezzo per esercitare una professione.Si affermò, così, presso la corte aragonese-spagnola una “nobiltà di toga”, dedita ai codici ed alle leggi per la vittoria di quella giustizia, spesso violata da personalismi di potere, a mezzo dell’arma della dialettica. Del resto, era noto “l’eccedente numero di principi e signori nel paese e alle numerosissime liti che quelli intrecciano tra loro stessi, con enti ecclesiastici, con le università delle terre o con lo stesso Regio fisco” (C. De Frede, Studenti e uomini di Leggi a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1957, p.13). Inoltre, oltre ai legisti la Monarchia necessitò di funzionari, consiglieri, diplomatici provenienti da una formazione di oratoria ed humanitas studia.
Casa d’Alessandro di Napoli, già ascritta al seggio di Porto, annoverò tra tali nuovi esponenti il sommo giureconsulto Antonio (1420-1499), poi ambasciatore per la regnanza aragonese, o il giurisperito umanista Alessandro (1461-1522), noto come il “principe degli eruditi” del quartiere Portanova del suddetto sedile, per la sua importante opera “Dies Geniales” (sorta di enciclopedia sulla giurisprudenza-filologia-storia e occultismo, edita con successo anche in Europa tra il ‘500 ed il ‘700), nonché altro Antonio, consigliere e Presidente del Sacro Regio Consiglio (1480) e poi Presidente della Regia Camera della Sommaria (1489) (M. de Nichilo, Alessandro d’Alessandro Giorni di Festa, Napoli 2014, pp.69-74) ed altri esponenti formatisi nel campo legislativo, occupati nei tribunali o amministrazioni governative tali da “dinastizzare” detti incarichi pubblici.
Tale ceto di giuristi, che si affermò già presso le corti angioino-aragonese acquisendo un ruolo politico di prestigio, costituì “di fatto un ceto a parte rispetto a quegli altri strati borghesi”(C.De Frede, Op.cit.,p.18).Costoro mantennero proprie specifiche costumanze, sul vestiario o imparentamento con esponenti di famiglie addottorate, pur non disdettando gli usi e costumi della nobiltà equestre della Napoli rinascimentale, così come l’interesse nel cavallo e sua arte di cavalcare. Nel reame di Napoli si fece così apprezzare il “corsiero napolitano”, che a detta di Pirro Antonio Ferraro nella sua opera così scrisse: “ben considerato, & principalmente di questo Regno, per la loro statura, habitudine, animosità, & vigore, avanzavano di gran lunga, ogni altra qualità di cavalli”(P.A.Ferraro, Cavallo Frenato, Napoli 1602, L.I, p.25). La cavalleria aragonese utilizzò il corsiero napolitano fino al precipitare degli eventi, come descritti sinteticamente da Alessandro d’Alessandro nella citata opera Dies Geniales (libro terzo), partendo dalla conquista del regno da parte di Carlo VIII e la fuga del “primogenito di Ferdinando Alfonso”, cioè Alfonso II, fino alla caduta del regno nel 1504. Tra il XV ed il XVIII secolo il cavallo corsiero (“I moti del cavallo, scrive Alberto, esser quattro: il primo è il corso, il quale si fa con salti, quando insieme s’alzano i pié dinanzi, e insieme quei di dietro, spingendosi il cavallo, e dal corso è derivato il nome del corsiere” da “La gloria del cavallo, opera dell’Illustre Pasqual Caracciolo, divisa in dieci libri, Venezia 1589, p.100”) fu così utilizzato nella cavalleria militare e per il tiro delle carrozze e pertanto fu diffusamente allevato in diverse provincie del regno, nonché in Italia (circa i napoletani “sotto i quali si comprende ogni altra generatione di buoni cavalli d’Italia e delle Isole” da G.S.Winter e Adlersflugel, Trattato nuovo e aumentato…del far la razza di cavalli, Nuremberger 1687) ed esportato in vari stati italici ed europei.Dal XV secolo le scuderie napoletane intensificarono gli allevamenti di cavalli di razza, in quanto sempre più richiesti da mercanti di vari paesi, come testimoniò lo stesso Boccaccio in una novella (V° seconda giornata) del suo Decamerone, presentando un tal domatore di cavalli, Andreuccio da Perugia, “venuto a Napoli a comperar cavalli…avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli”. Con il Viceregno spagnolo di Napoli (1503-1713) si sviluppò un intrecciato processo di ispanizzazione dei cavalli napoletani, nonché una napolitanizzazione dei cavalli spagnoli-portoghesi, grazie anche alle decisioni sovrane di Ferdinando il Cattolico e di Carlo V, favorevoli agli incroci tra il corsiero napoletano ed il “Jinete” o “villano andaluso”( “ma per dire dei tempi nostri, Noi veggiamo di Spagna prodursi cavalli maneggianti di statura grande e piccola, assai leggiadri e gagliardi, per la mescolanza , e’hanno co’ gli Africani. Altri ve ne sono di più taglia, che i Barbari, e son chiamati Ginetti, i quali mostrano gravità nel passeggio, e nel maneggio, e in tutt’i loro movimenti. Altri di maggior fortezza, e di membri grossi, son detti Villani di Spagna…si allevano in luoghi aspri, quali sono le montagne di Alcaraz e di Asturie, e se non così belli, riescono tuttavia eccellentissimi di robustezza” da P.Caracciolo, Op. cit.).Altri incroci sono seguiti tra il ‘600 ed il ‘700, dando origine alle razze del “Persano”, “Murgese” e “Lipizzano”.D’altra parte il corsiero fu stimato da tutti gli studiosi dell’Arte equestre, tra cui il duca Giuseppe d’Alessandro che nella sua opera settecentesca “Pietra di Paragone” menzionò detto quadrupede quale miglioratore di altre razze.
L’uso delle armi da fuoco e di artiglierie più potenti e precise portò così all’alleggerimento della cavalleria dalle pesanti bardature, nonché all’uso di cavalli più veloci ed addestrati. La cavalleria leggera fu formata da reparti di archibugieri e moschettieri a cavallo. Il corpo degli “arcabuceros a cavallo”, sotto re Filippo II,formato da truppe di origine albanese era addestrato per combattere a piedi ed a cavallo, precedendo i reggimenti dei dragoni. Si diffuse, poi, un’innovativa tattica da guerra, detta “caracollo” basata su una formazione di armati cavalieri a “quadrato”(quadratum equitum agnem) in colonne, avanzante a bassa andatura verso il nemico per poi aprire il fuoco a distanza utile per il tiro con la prima linea di cavalieri. Terminata la prima raffica, subentrava il secondo schieramento fino all’ultima fila. Il cavallo e la cavalleria militare continuò, quindi, ad essere tenuta in buona considerazione dai dominatori spagnoli, sempre accorti nella selezione-potenziamento ed addestramento del quadrupede. Nel 1550 fu fondata a Napoli la prima accademia equestre, dove vari illustri maestri (Giovan Battista Ferraro, Federico Grisone, Giovan Battista Pignatelli) si dedicarono alla tecnica equestre. Si aprirono vari centri di addestramento, “cavallerizze”, quali strutture con alloggi per il personale, recinti e spazi di lavoro anche coperti, stalle per selezionare i puledri pervenuti dagli allevamenti di famiglie nobili del Regno (“razze”) per poi addestrarli a tutte le tecniche di combattimento (dal duello corpo a corpo, alla carica frontale o inseguimento del nemico), così come alle arti equestri dell’accademia (“il passeggio, la corvetta, far ciambella,la capriola, l’orsata”). La Reale Cavallerizza di Napoli, di epoca aragonese, ebbe sede presso il ponte della Maddalena e godette di gran fama nel Viceregno e Regno di Spagna per i suoi ben addestrati cavalli e suoi esperti maestri addestratori, spesso richiesti presso altre corti (Prospero d’Osma, ad esempio, fu affidato all’allevamento reale inglese di Malmesbury e Tutbury nella seconda metà del XVI secolo, Gian Geronimo Tinti invece fu a capo dell’allevamento di Cordoba nel XVII sec.). Il citato duca d’Alessandro così ricordò nella sua opera la figura del “Cavallerizzo Maggiore”, responsabile della Real Cavallerizza in Napoli,: “..era un Posto di molto honore, e di non poca autorità tanto che i fuggitivi erano franchi, sempre che poneano il piede, non solo dentro il ristretto della gran stalla, e di quel gran Coverto, ove si maneggiavano i cavalli, ma anche per tanti passi fuori a tutto il recinto, ed il Cavallerizzo Maggiore teneva autorità di prendersi dalla Vicaria quei carcerati che voleva per servizio della stalla; i suoi sudditi erano cavalcatori, Mastri di Stalla, Famigli, Giumentari, e simili, tenea le carceri dentro l’istesso luogo, e potea carcerare, e castigare, fuo che di morte, e di tormenti atroci detti sudditi e tenea autorità quando era per servitio di sua Maestà di servirsi di cavalli, giumente, e polledri anche de’particolari; E’ vero però che di tutta detta autorità detti Signori se n’avvalsero sempre con discrezione” (G, d’Alessandro, Opera divisa in cinque Libri…,Napoli 1723, p.290).Il cavallo meticcio (incrocio tra cavalli spagnoli-napolitani-berberi-mediorientali) ,quindi, continuò in epoca spagnola a costituire uno strumento tattico nelle manovre militari, tanto da utilizzarlo con le occupazioni dei “conquistadores” nelle Americhe per impaurire le popolazioni indigene durante le conquiste. Così come, la tradizione feudale del tributo della “chinea”, ovvero della candida giumenta addestrata con bardatura e cofanetto con 7.000 ducati d’oro, offerta al Papa dai regnanti di Napoli fu rispettata anche dai Viceré ispanici.
Circa la cavalleria onoraria, sotto gli spagnoli, questa rimase conforme al vecchio modello aristocratico feudale: i militi che si distinsero nel servizio al proprio sovrano spettò il titolo di “caballero”, a cui però non spettò automaticamente il rango di “nobleza”, giacché bisognava comunque essere discendenti da genitori o avi noti per valore, onore e meriti aristocratici (hijo de algo-hidalgo: figlio di qualcuno). Il lignaggio della hidalguia si poteva ottenere con atto di grazia reale (merced), che richiedeva però un lungo lasso di tempo, oppure ottenibile con l’accettazione da parte degli altri nobili. Il caballero, allorché riconosciuto membro della nobiltà, godeva di alcuni vantaggi previsti dal Corpo Giuridico, riservati all’aristocrazia: esenzione dalle tasse, varie immunità, essere giudicati dai propri pari, esenzione da pene per debiti. La nobiltà spagnola, di conseguenza, appartenne alla cavalleria, ricevendo così un sostegno economico con cui affrontare le spese per cavalli ed equipaggiamento da guerra (l’elmo chiuso con o senza visiera, borgognotta, una lunga lancia, una robusta spada, una daga, una corazza ed un piccolo scudo, brocchiere e speroni d’acciaio). Detti hidalgos erano tenuti a possedere terre e mantenere uno stile di vite conforme al proprio rango sociale, regola non sempre rispettata specie da quella nobiltà entrata in una fase di decadenza. La letteratura dell’epoca colse questo aspetto ciclico della nobiltà cavalleresca con il romanzo del Don Chisciotte della Mancia del Cervantes. I tempi moderni apparsi all’autore erano privi di certezze con il tramonto della cavalleria e suoi ideali, ormai oggetto di mistificazione e di fantasia o invenzione. La decadenza sociale del cavaliere Don Chisciotte diventò argomento ambiguo, oggetto di ironia e parodia. Gli antichi valori apparvero, così, anacronistici finendo con l’assumere aspetti grotteschi per l’inadeguatezza al mondo mutato, nonché ricercati ed immaginati all’eccesso della follia di tale cavaliere errante (AA.VV.,Cavalli e Cavalieri nella storia, nella letteratura e nell’architettura del Molise, CB 2002). E’ noto, tra l’altro, che durante la regnanza ispanica si accentuò il fenomeno della commercializzazione di titoli nobiliari e feudi posseduti da parte di quei cavalieri caduti in difficoltà economiche, nonché si intensificò il trasferimento dei feudi come strumento di riconoscimento premiale utilizzato dal Sovrano verso i suoi sudditi fedeli e benemeriti.
Difatti, la conquista spagnola del regno napoletano trovò in più occasioni contrasti da parte della nobiltà locale. La famiglia d’Alessandro, con taluni suoi personaggi, ad esempio partecipò in principio ai moti anti-ispanici del 1528 e 1547, sia in occasione della spedizione delle truppe francesi del Lautrec per rivendicare il regno di Napoli sotto la monarchia gigliata sia per il tentativo di introdurre a Napoli il tribunale dell’Inquisizione. Don Lorenzo d’Alessandro, già governatore di Monopoli (1514/20) e padre del capostipite del ramo dei Pescolanciano, si tramanda essere stato coinvolto nei suddetti disordini a causa dei quali subì la confisca dei beni e la destituzione dalle cariche ricoperte con probabile sua impiccagione. In egual modo, esponenti del ramo di Cardito aderirono alla congiura citata del “partito angioino” pro-Lautrec: i cugini del detto Lorenzo,Giulio, Jacobuccio II furono attivi nella cospirazione. Jacobuccio ottenne “l’absoluction de todo castigo” nel 1533, confermata con l’indulto del 21 maggio 1550 di re Carlo V, per la partecipazione ai moti del 1527-29. Lo stesso Marco d’Alessandro, presidente della Regia Camera, si trovò coinvolto nella medesima rivolta (T.Pedio, Napoli dalla conquista spagnola ai moti del 1528-1547 nelle cronache napoletane, Bari 1972, p.234). Nei tumulti del 1547, invece, contro l’Inquisizione, voluta dal viceré Toledo in Napoli cadde giustiziato per decapitazione il giovane Fabrizio d’Alessandro, “scannato” nel largo di Castel Nuovo assieme ai nobili Antonio Villamarino e Gio. Luigi Capuano (U.Folieta, Tumultus neapolitani, Napoli 1769, p.40). Nonostante questi episodi, va detto che vi furono durante il viceregno spagnolo le principali acquisizioni dei feudi di Pescolanciano (6 settembre 1574/76 con assenso del viceré marchese di Monteyar) ad opera del ramo di Gio.Francesco d’Alessandro(per il tramite di sua moglie Rita Baldassarre) nonché della Castellina sul Biferno (nel 1630 sotto il vicerè Ferrante Afan de Rivera) per il tramite di Giovanni Battista II d’Alessandro. Inoltre, la corona spagnola concesse i titoli ducali di Pescolanciano (nel 1654 a Fabio d’Alessandro con exequatur del 29 giugno 1658) e della Castellina (con diploma spedito da Madrid l’11 dicembre 1639 ed exequatur del 30 maggio 1640 di re Filippo IV). In quest’epoca, compresa tra il XVI e XVII sec., comunque certi valori cristiani di servizio al prossimo bisognoso, quale eredità del mondo cavalleresco, basati sull’assistenza, carità-misericordia furono prerogative di vita di vari personaggi di Casa d’Alessandro che furono “professi” nell’Ordine di Malta (da Camillo, arruolato nel 1574,Anonio,Francesco e Francesco Maria fino ad Antonio nel 1788), nonché governatori della SS.Casa dell’Annunziata e fondatore di Opere Pie, quale il Pio Monte della Misericordia in Napoli (1601), ad opera di Giovanni Battista d’Alessandro della Castellina (di cui Giulio Cesare Capaccio lo ricordò “per virtù ed integrità,tra i suoi e tra gli altri è degnissimo di tutte le lodi, che convengono ad un pregiato cavaliere”,G.C.Capaccio, Il Forastiero, Napoli 1634, p.726; per tutta la vita costui continuò a “prestar pietosi e costanti servigi agli infermi dell’ospedale degli Incurabili, ove il suo nome era venerato e benedetto”,FF. De Daugnon, La Ducal Casa d’Alessandro, Milano 1880,p.15).
La passione ippica e gli allevamenti di cavalli in Pescolanciano tra ‘500-600
Il barone Fabio Senior (XVI sec)
La prima testimonianza di una tradizione equestre presso il ramo d’Alessandro di Pescolanciano fu quella del duca Gio.Giuseppe d’Alessandro che così scrisse nella sua opera letteraria, edita nel 1711, “Arte del Cavalcare”: “D.Giovanni d’Alessandro Zio carnale del Duca Fabio mio padre, hebbe per antecessore Fabio Seniore, molto inteso del mestier di Cavalcare, e di spada, tanto che frà gl’altri gesti in un Duello a cavallo gli riuscì il dar baston re conto della sua attività”(p.308). Tale Fabio Senior d’Alessandro, secondogenito del capostipite Gio.Francesco, visse tra la fine del XVI sec. e gli inizi del XVII. La sua capacità di duellare, ben nota tra i cavalieri della Napoli spagnola, era tipica e diffusa presso la nobiltà del regno “…famosa non meno della francese – a detta del Croce – pei quotidiani duelli, uno di questi tra un Carafa ed un Acquaviva, andò a finire in pubblico spettacolo a Norimberga”(B.Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1966,p.135).
Il barone Giovanni (1559-1654)
Il duca Gio.Giuseppe aggiunse nei suoi ricordi anche le note sul cavalier Giovanni d’Alessandro (1559/1574-1654), immortalandone anche il di lui ritratto. Così scrisse: “Detto Giovanni però volle esser scolare del Sig.Gio.Battista Miroballi doppo haver havuto i principii da Fabio, per lo che diede non poco saggio dell’approfittamento nella nobil Professione di Cavalcare in Napoli donde poi in anni avanzati ritirossi in Peschiolanciano, dove allora era utile Padrone Geronimo suo fratello, ed in detta Terra fe molto famosi Cavalli, de’ quali buona parte ne regalò a’Signori di sfera.Dilettossi molto in Cavalli saltatori, la sua gran forza, e risoluzione è inesplicabile. Era di statura alta, ed ossuta, hebbe gran genio alle caccie, nelle quali fu soverchio dedito e precipitoso, precisé nella carriera de’ Lepri e Caprii…Morì senza figli, e toccando la Primogenitura ad esso Giovanni, non volle saperne, per godere colla solita libertà l’esercitio di Cavalcare, e delle Caccie, e si contentò, ch’aprisse la Casa Agapito terzogenito.Morì detto Giovanni d’anni ottanta, e mentre visse fu sempre sano, e forte, …”(p.308). Costui per la prematura morte del fratello Gio.Gerolamo, nel 1642, gli successe nel feudo baronale, ricevendo primo relevio di successione “sulle terre di Pescolangiano, Civitanova, feudo di Sprondasino, feudo di Rocca, e metà di Pontone”(ASN, Atti dei Relevi, Vol.14, 1654, ff.132-138).In data 7/9 settembre 1645 ricevette "significatoria" dalla Real Corte per il relevio di 127.3.17 ducati da pagare a saldo della somma di 627.3.17, imputata per la successione (ASN,Cedolario del Contado di Molise, 1639-1695,fol.34). Giovanni, con il fratello Agapito, fu confermato erede nei beni burgensatici di Gio.Geronimo, come dichiarò la Corte di Pescolanciano e confermato dalla Gran Corte della Vicaria il 24 marzo 1643. Nel medesimo anno al 19 dicembre risultò intestatario del feudo di Montemilio.Lo stesso dimorò in Napoli per gran parte della sua vita ove, riferisce il già citato Giuseppe d’Alessandro nella sua opera, “..volle esser scolare del Sig. Gio.Battista Miroballi”, ritirandosi in “Peschiolanciano” in tarda età.In queste terre poté dedicarsi meglio alla sua passione per l'equitazione avuta sin dall'infanzia per iniziazione dello zio cavaliere Fabio Senior. Allevò ed addestrò, quindi, una razza di cavalli “saltatori”, molto richiesti da diversi signori del tempo ed il cui marchio aveva impresso una “A”. Del resto era consuetudine che i vari Casati nobiliari disponevano di proprie scuderie, ove allevavano razze di cavalli con specifiche marchiature, come documentato dal menzionato duca-poeta Giuseppe nella sua opera letteraria. Il barone Giovanni,tra l’altro, fu memore della costumanza equestre del Conte Enrico Pandone, vissuto nel castello di Venafro agli inizi del XVI sec. Su modello del Pandone, famiglia a cui i d’Alessandro furono collegati non solo per motivi politici (entrambe le Case si schierarono con il partito angioino pro-Lautrec e furono condannate per tradimento) ma anche di parentado(Gio Francesco, ramo Castellina, sposò Camilla Pandone nel 1656), D.Giovanni condivise la stessa passione dell’allevamento di cavalli, che portò D.Enrico a far immortalare nel suo maniero il ritratto di circa una ventina di propri destrieri bardati, già allevati e poi donati ai vari signori del tempo.La descrizione tramandata da D.Giuseppe sulla di lui statura alta ed ossuta conferma lo stereotipo familiare giunto sino ai giorni d’oggi,come appare nell’incisione litografica dell’opera del Giuseppe. Questa viene così descritta “(…) vedete il Cavallo del Signor D.Gio.d’Alessandro come ben cala le groppe, e aguatta l’anche! Cosa ben vaga, e facile a’cavalli bene alleggeriti, e posti su l’anche, detto Cavallo non mostra in verun conto la mano nascosta (del cavaliere)…che il medesimo mostri un atto forzoso nel tenere rivolta la faccia al lato dritto” (G.d’Alessandro, Op.cit., p.319).Inoltre, il cav. Giovanni ebbe, oltre ai cavalli, un notevole interesse per la caccia delle lepri e delle capre. Egli ,però, per dedicarsi con maggiore libertà a queste sue passioni rimase celibe e preferì ,poi, rinunciare al titolo ed al feudo.Alla data del 6 luglio 1647 il barone Giovanni risulta nell’elenco dei tassati per la rata d’interesse (ducati 25) relativamente alla gabella sulla frutta (F.Nicolini, Notizie tratte dai giornali copiapolizze degli antichi banchi intorno al periodo della rivoluzione napoletana del 1647-48, Napoli,1952, p.146. Il pagamento avvenne l’8 agosto per tramite Ferrante di Donato, suo procuratore con istrumento rogato in Pescolanciano dal notaio Giulio de Rosa -p.25). In data 8 giugno 1653 Giovanni fu citato per il pagamento “pro jurisditione causas criminalis” per le terre di Carovilli e Castiglione per 3.4 ducati.Il 2 maggio 1654 egli ottenne il Regio Assenso dal viceré conte di Castrollo per la donazione dei feudi di Civitanova e Sprondasino (Instrumento per notaio Francesco Cardarelli di Barrea, del 9 ottobre 1652) in favore del nipote Fabio Junior, figlio primogenito del di lui fratello “doctoris” Agapito, col patto che se il detto Fabio fosse morto senza figli maschi tal donazione sarebbe passata a beneficio degli altri congiunti (ASN,Privilegi della Cancelleria del Collaterale Consiglio, Vol.343,1654, f.115 tergo).Circa la condizione della donazione a Fabio d’Alessandro fu così fissata “col patto, che se detto Fabio fosse morto senza figli maschi tale donazione s’intendeva fatta a beneficio degli altri maschi della famiglia d’Alessandro, discendenti dal ceppo comune, escluso sempre le femmine”). Il barone Giovanni visse 80 anni (secondo il De Daugnon visse fino a 95 anni, periodo più probabile)e morì il 6 giugno 1654.Fu sepolto nella chiesa di S.Salvatore in Pescolanciano, probabilmente nella nicchia di famiglia sotto l’altare (ASN, Atti dei Relevi, Vol.16, 1654, f.477).
In questo periodo la conformazione dell’antico fortilizio di Pescolanciano doveva apparire, probabilmente, come uno sconnesso agglomerato composto da vari corpi separati di fabbrica,non omogenei, e cioè: una Torre mastio a difesa sul lato nord-est; un’altra torre di forma cilindrica (di lontane sembianze sannitiche) di avvistamento; una chiesetta al nord e verso sud-est una struttura fortilizia con merlature.ll tutto circondato da muro merlato lungo di cinta esteso su tutto lo sperone roccioso.Questa ipotizzata situazione si desume da un'immagine paesaggistica di sfondo alla figura del sunnominato Giovanni d'Alessandro e pubblicata nel 1711 dal duca Giuseppe d'Alessandro nell’ opera intitolata “Arte del Cavalcare”.Mentre la torre Mastio (rettangolare) si presenta tuttora inalterata per la sua originaria funzione di difesa del borgo sottostante,la torre cilindrica,invece,più diffusa nelle roccaforti perché difficilmente espugnabile data l’assenza di angoli morti, dovette subire - durante i secoli succedutisi ed a seguito dei lavori di ampliamento e restauro delle esistenti costruzioni avviati dal casato dei d'Alessandro intorno al 1600 -,un'eventuale demolizione oppure una parziale trasformazione assumendo forma quadrangolare(belvedere). L’accesso alle “pertinenze” per quadrupedi e salmerie,inizialmente, doveva provenire da un esterno sentiero ubicato nel terreno detto “varrata”(lato ovest).
Cultura equestre e collezionismo in Pescolanciano nel ‘700
Tra il XVII e XVIII sec. vi fu una ricca produzione culturale di testi scritti sull’Arte Equestre ad opera dei vari maestri italiani ed europei, allorquando cominciò la fase di declino della razza napolitana. Nell’inventario di fine seicento dei libri presenti al castello in Pescolanciano si annoveravano i seguenti autori, collegati a tale letteratura specialistica:
-Lorenzo Rusio, Opera de l’arte del mascalcio.Nella quale si tratta delle razze, governo et segni di tutte le qualità de cavalli, et di molte malattie con suoi rimedi, Venetia 1543;
-Claudio Corte, Il Cavallerizzo nel quale si tratta della natura de’cavalli, del modo di domarli, et frenarli, Venetia 1562;
-Federico Grisone, Ordini di cavalcare, et modo di conoscere le nature de’cavalli, Venetia 1571;
-Pasquale Caracciolo, La Gloria del cavallo.Opera divisa in dieci libri, Venetia 1589;
-Carlo Ruini, Anatomia del cavallo,infermità, et suoi rimedi, Venetia 1599;
-Gio.Antonio Cito, Del conoscere le infermità che avvengono al cavallo et al bue, Venetia 1608;
-Giovanni de Gamboa, Ragione dell’arte del cavalcare, Palermo 1606;
-Alessandro Massari Malatesta, Il Tractatus de modo equos fraenandi, Venetia 1607;
-Federico Grisone, Scielta di notabili avvertimenti pertinenti a’cavalli, Venetia 1620;
-Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato, diviso in quattro libri, Venetia 1620;
-Lorenzino Palmieri, Perfette regole et modi di cavalcare, Venetia 1625;
-Tomaso Arcamone, Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli, Trani 1627;
-Fra Giovanni Paolo d’Aquino, Dell’uso del piliere, Vicenza 1630;
-Nicolò Schiratti, Disciplina del cavallo con l’uso del piliere, Udine 1636;
-Francesco Liberati, La Perfettione del cavallo, libri tre, Roma 1639;
-Gio.Battista Galiberto, Il cavallo da maneggio, Vienna 1659;
-Giovanni Rondinelli, Del modo d’imbrigliare i cavalli, e di adoperarli, Ferrara 1670;
-Nicola e Luigi Santapaulina, L’arte del cavallo divisa in tre libri, Padova 1696;
-Gio.Battista Trutta, Novello giardino della prattica, et esperienza divisa in tre libri, Napoli 1699;
Il duca Gio.Giuseppe (1656-1715) e suo figlio duca Ettore (1694-1741) per l’Arte del Cavalcare e della Spada.
Con questi due esponenti di Casa d’Alessandro Pescolanciano l’atavica tradizione equestre familiare raggiunse la massima notorietà nel regno di Napoli ed in altri stati italiani ed europei, tra la fine del seicento e la prima metà del settecento. Costoro seppero immortalare nell’opera culturale sull’Arte del Cavalcare, edita nel 1711 e 1714 per la prima volta e ristampata poi nell’edizione del 1723 nei suoi 5 libri, tutta quella cultura ippologica-militare e cavalleresca tramandata nei secoli precedenti. Il trattato letterario, cui hanno fatto seguito altre opere poetiche del duca Giuseppe (Selva Poetica nel 1713, Arpa Morale 1714), divenne la “Pietra miliare” (Pietra di paragone )di tutti i cavalieri dell’epoca e successiva sia per l’apprendimento delle regole basilari per andare a cavallo, sia dei tecnicismi relativi a briglie-morsi, ma soprattutto per la gestione e cura delle infermità dei cavalli e dei fondamenti esercizi d’armi e cavallereschi. Il d’Afflitto, a fine ‘700, così scriveva sul duca Giuseppe d’Alessandro: “ho inteso a dire da’nostri vecchi cavalieri,che nelle contese di spada, e del merito di un cavallo, a Lui come ad oracolo si ricorrea”. La pubblicazione, divulgata presso varie corti d’Europa, fu realizzata per la sentita passione del duca Giuseppe e del suo figlio Ettore, che continuarono a mantenere in vita anche l’allevamento di cavalli (oltre ad incrementare l’attività della pastorizia portando il numero dei capi posseduti a 8.150 nel 1700)presso il feudo di Pescolanciano, tant’è che grazie al loro interessamento si realizzarono scuderie più ampie e ben strutturate nelle pertinenze del castello sul finire del XVII ed inizi del XVIII sec. La forte sensibilità culturale,influenzata dalla seicentesca poetica barocca sull’iconologia dei cavalli ed affiancata da forme di mecenatismo verso istituzioni accademiche napoletane (Accademia degli Oziosi e Monte di Manzo)ed artisti(in particolare il fiammingo Guglielmo Borremans), portò tali aristocratici ad arricchire di famose opere pittoriche(più di un centinaio di tele firmate al 1715) e letterarie la propria dimora gentilizia, tanto da realizzarsi presso il maniero un’importante quadreria ed una corposa biblioteca, rimaste integre fino al terremoto del 1805 (si conservano ad oggi alcuni quadri e vari libri presso gli eredi), nonché una capiente armeria. Il binomio cultura-amministrazione dei feudi fu così la ragione di vita di detti protagonisti aristocratici, verso i quali non mancarono di tramare taluni nemici per “l’invidia” del patrimonio realizzato e del relativo prestigio raggiunto, tanto con le accuse di tradimento contro il duca Giuseppe (sospettato di aver partecipato alla congiura di “Macchia” del 1701 contro il governo vicereale spagnolo), nonché con quelle sentimentali del duca Ettore (rapporti contrastati con la consorte Toledo). In questo periodo il simbolo del cavallo comparse come emblema nell’architrave del palazzo d’Alessandro in Domicella.
La tradizione equestre dei d’Alessandro nel corso dell’800-900
Le costumanze cavalleresche e le attività ippologiche sono proseguite presso Casa d’Alessandro Pescolanciano per tutto il corso dell’800 e del ‘900. In particolare, a morte del duca Ettore nel 1741, il di lui secondogenito, Francesco Maria (1757-1836) proseguì la tradizione della cavalleria onoraria, entrando come cavaliere professo nell’Ordine Gerosolimitano (di Malta), ascrittovi dal novembre del 1795 (già suo zio Francesco ricevette medesima investitura nel 1778).Il primogenito duca Nicola Maria I(1726-1764), invece, mantenne la ridotta scuderia di cavalli, che furono allevati insieme ai suoi più fruttuosi 10.800 capi di pecore (P.Di Cicco, Il Molise e la transumanza,Isernia 1997,p.365). Circa il patrimonio pittorico e librario, si rinviene questo citato in maniera limitata ancora negli inventari del 1780 e 1795,allorquando era in vita il duca ceramologo Pasquale Maria(1756-1816).L’interesse cavalleresco all’Ordine di Malta portò a costui l’onoreficenza della “Croce di devozione” nel 1794 (mentre il figlio Antonio entrava “professo” nel Priorato melitense di Capua).Invece non si sono trovate, al momento, particolari notizie su interessamenti sull’allevamento di equini, salvo quello delle capre e pecore e per qualche cavallo necessario per il traino di carrozze dell’epoca. Del resto, è risaputo che il duca Pasquale M. spese la sua vita dedicandosi alla passione per la ceramica, che alimentò negli anni, affiancandola alle obbligate incombenze gestionali ed amministrative dei feudi, oltre ad occuparsi dei danni arrecati al patrimonio dalle calamità naturali.
Nel corso dell’800 il cavallo restò a Pescolanciano quale mezzo necessario per gli spostamenti(nel settecento si usò anche la portantina, di cui rimase un modello chiuso color verde con blasone presso l’ex archivio fino agli anni ’70) , il traino di carrozze e per taluni lavori collegati alle attività terriere (seppur asini e muli risultano più impiegati nelle varie attività lavorative locali). Il nipote del duca Pasquale, duca Giovanni M. (1824-1910), rispolverò il simbolo della cavalleria, tornando a marchiare (sigla DP) un limitato numero di equini ed usando stalloni selezionati per l’assolvimento del suo incarico di Capo Squadrone della Guardia d’Onore borbonica della Provincia di Molise. Costui ottenne anche l’onoreficenza cavalleresca di Balì Gran Croce di Giustizia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di S.Giorgio da parte di S.M. re Francesco II (31 agosto 1859). A fine ‘800, i cavalli in uso al castello rimasero esclusivamente per il trasporto personale e la scaletta in pietra,presente nel cortile adiacente alla torretta-cisterna, ne è testimonianza. Così come,in un documento d’inventario per atto di pignoramento,datato ottobre 1894, si rinviene la presenza di “una carrozza a quattro ruote parcheggiata nella scuderia” del castello di Pescolanciano, per gli spostamenti verso Napoli. Nel corso del ‘900 la stalla e la scuderia del castello molisano rimase pressocché vuota, locali che persero così definitivamente la loro funzione anche a seguito della divisione ereditaria tra i discendenti dei figli di Nicola M, marchese di Civitanova, e di D.Agapito d’Alessandro.
Il ricordo della tradizione equestre, nei tempi moderni della meccanizzazione e dell’auto, fu mantenuto dall’Avv. D.Ettore Em.(1892-1975) di Fabio M., che assolse gli obblighi militari nella Prima e Seconda guerra mondiale come ufficiale di cavalleria, 9° cavalleggieri “Lancieri Aosta”,ottenendo l’onoreficenza di “Cavaliere di Vittorio Veneto” per la partecipazione alla vittoriosa battaglia italiana. Lo stesso fu anche ascritto al Pio Monte della Misericordia di Napoli, come il di lui fratello Umberto.
Ma fu soprattutto il diretto cugino di D.Ettore, D.Mario d’Alessandro(1883-1963),figlio di Nicola M., marchese di Civitanova e poi duca di Pescolanciano, a rinsaldare le antiche costumanze cavalleresche del Casato con la sua nota passione-collezione equestre per le carrozze e la sua partecipazione agli Ordini Cavallereschi onorari (cav. d’Onore e Devozione nello SMOM nel 1952, cav. di Giustizia nello SMOC nel 1961 e di S.Gennaro).Nella dimora paterna, villa Pescolanciano, in Portici fu allestito nel vasto parco circostante la dimora un cavalcatoio, ove fin da ragazzi D.Mario e le sorelle Anna e Antonia si esercitavano ad andare a cavallo. D.Mario giunse anche a partecipare a dei concorsi ippici, sia direttamente che con proprio fantino, nel periodo tra le due guerre mondiali.La sua passione maggiore fu la carrozza, che collezionò nei suoi vari modelli e guidò in vari concorsi fino agli anni ’60. Negli anni del boom economico, con l’inizio del degrado speculativo immobiliare nell’area napoletana, che lo coinvolse direttamente per il forzato esproprio del Comune di Portici su una parte del parco della villa, D.Mario abbandonò la sua città per Livorno e le sue passioni equestri, pur donando l’intera collezione di carrozze e finimenti al museo di Villa Pignatelli in Napoli nel 1962 al fine di preservare ai posteri tale aspetto della tradizione equestre familiare.
Nel rispetto di questa antica costumanza del Casato, dagli anni ‘90 si sono alternati eventi culturali e manifestazioni con presenza di cavalieri presso il castello in Pescolanciano ad opera del Centro Studi d’Alessandro.Nel 2002 in Pescolanciano si è tenuta una particolare tavola-rotonda con la partecipazione di accademici, studiosi ed appassionati di Arte equestre che ha dato origine ad una pubblicazione con gli atti della conferenza, dal titolo “Cavalli e Cavalieri nella storia, nella letteratura e nell’architettura del Molise”. Così come nel 2006 è stato ricordato la figura del citato “marchese delle carrozze”, D.Mario, con la presentazione del libro “L’Arte dell’equitazione.Il marchese delle carrozze Mario d’Alessandro”, oltre a pubblicazione sugli Ordini cavallereschi, così come una rievocazione storica di combattimenti medioevali (“Arte della Spada”) nel 2007, nonché funzioni religiose dell’Ordine Costantiniano (in particolare nel 2008).Nell’evento culturale del 2013 “Armature da giostra e trattati rinascimentali” della Compagnia dell’Aquila Bianca è stata ricordata la figura del duca poeta Giuseppe d’Alessandro e la sua opera letteraria presso il prestigioso museo fiorentino dello Stibbert, sede internazionale delle memorie cavalleresche.