Sorge in terra di Molise nell’antico borgo di Pescolanciano, nome derivante da “PesclumLanzanum” che indicava la roccia (“Pesclum”) ed il suo feudatario normanno (“Lanz”). E’ opinione ormai consolidata che il castello sia sorto su un originario sito fortificato sannitico, seppur documenti certi d’archivio evidenziano una presenza fortilizia solo dall’epoca di Alboino, intorno al 573 d.C.. Alcuni storici, ritengono, invece, la sua costruzione essere posteriore alla suddetta datazione e cioè risalente all’epoca di Carlo Magno, circa l’ 810, o di Corrado il Salico, il 1024. Le prime tracce del nucleo abitativo locale, comunque,si fanno risalire all’VIII-IX° secolo, quando si formò una comunità di coloni e religiosi, favorita dai monaci di S.Vincenzo, proprietari di tali terreni.In quest’epoca il fortilizio, probabilmente, era costituito da una torre-mastio con suo recinto murato e dimora del signore, che dominava la fondovalle Trignina. Tra i suoi primi feudatari, citati nel Catalogo del Borrelli, si annovera Berardus de Calvello che “tenet de eo Pesclam Corvaram et Pescumlanzanum..et Vinealim” (1109).
Alcune testimonianze riferiscono che con la discesa di Federico II, il territorio di Pescolanciano era governato da un feudatario, Ruggero di Peschio-Langiano, che ricevette ordine dal suddetto re di rimuovere i Caldora di Carpinone, smantellando il loro castello, di assediare Isernia e quei feudi ostili a re Federico. Suo contemporaneo, Teodino di Peschio Lanciano che fu giustiziere, nominato dalla Real Corte, che si interessò del recupero dei beni demaniali occupati dai rivoltosi (1220-21). Tale spedizione fu di sicuro organizzata nel fortilizio allora esistente e da esso prese le mosse nel 1224. Il feudo, confinante col vicino borgo di S.Maria dei Vignali, abbandonato dopo il terremoto del 1456, era attraversato da un importante nodo di comunicazione, che collegava le alte località dell’Appennino centrale abruzzese con quelle costiere del “Tavoliere di Puglia”. Detto percorso “tratturale” (Lucera-Casteldisangro, Pescolanciano-Sprondasino, Sprondasino-Castel del Giudice), era utilizzato non solo dai numerosi pastori e loro animali, transumanti in direzione del mare o montagna a seconda delle stagioni climatiche, ma anche da comuni viandanti e da pellegrini diretti in Terra Santa. Questi tratturi divennero, pertanto, nel corso dei secoli (XIV-XVIII) itinerari strategici sia sotto l’aspetto economico, per le entrate fiscali (fida) garantite dall’attività di transito della pastorizia, sia perché costituirono il diretto collegamento da Roma ai porti pugliesi, all’epoca dei pellegrinaggi e delle crociate. Ciò spiega, quindi, la presenza lungo tali percorsi di torrioni, castelli, monasteri e chiese ove si celebravano svariati culti e veneravano Santi protettori; strutture queste che risultano essere state difese da raggruppamenti di cavalieri Templari, Teutonici e Gerosolimitani.
Il castello di Pescolanciano, arroccato su uno sperone di roccia ai piedi del monte Totila, sotto il quale si sviluppò il borgo medioevale con le sue mura perimetrali con accessi all’abitato tuttora visibili, assolse a questi compiti di difesa e ospitalità sia sotto i feudatari Carafa Spina ed Isernia che sotto gli Eboli, sin dal XIII secolo. Queste secolari funzioni del borgo e del suo maniero ricevettero “nuovo impulso” con l’avvento di nuovi feudatari. Il feudo di Vignali e Pescolanciano fu, tra il 1576-79, alienato per 10.850 ducati da Andrea d’Eboli o sua nipote Aurelia a Rita Baldassarre, moglie di Giovanni Francesco d’Alessandro, dell’illustre Casato napoletano del Sedil di Porto. La baronia di “Pescolangiano” con i suoi feudi rustici limitrofi divenne ducato nel 1654 sotto il sesto barone Fabio Jr.(1628-1676) di Agapito(1595-1655) . A questo personaggio si fanno risalire i primi lavori di abbellimento, ampliamento e di consolidamento della struttura fortilizia che fino ad allora doveva essere stata composta da corpi a se stanti, quali una torre mastio ed una cilindrica, nonché un corpo a “bastione” merlato a “scarpa”, una chiesetta entro un recinto murato. Al citato personaggio e suo padre si attribuiscono una serie di interventi di modifica dell’originaria configurazione del castello con pianta a forma di esagono irregolare. L’ingresso, in principio presso la torre mastio lato nord-est, dal quale le persone avevano accesso probabilmente utilizzando scala retrattile, venne chiuso e riaperto con ponte levatoio, finito nel 1691. Il cortile esterno, precedentemente a gradoni rocciosi, fu fatto spianare e completato ai tempi del duca Gio.Giuseppe sul finire del ‘600.Furono anche edificate delle costruzioni di servizio,dette “pertinenze”, tra cui la “guardiola” con il suo balcone seicentesco arabescato e le precise feritoie. Fu,pure, inglobata la chiesetta-cappella gentilizia nel fortilizio con grosse migliorie, i cui lavori di arricchimento con marmi intarsiati(due altari prima in gesso poi con marmi intarsiati in stile barocco), decorazioni a stucco e dipinti vennero ultimati nel 1628. Il luogo sacro, per volere del duca Fabio Jr., ospitò dal 1673 alcune reliquie del corpo del martire cristiano S.Alessandro di Bergamo, pervenute da Roma con bolla papale e celebrate con antico rituale nel giorno del martirologio(26 feb-26 ag.).
Il feudo di Pescolanciano acquisì sotto i d’Alessandro un’importanza maggiore per l’accresciuta economia agricolo-pastorale e soprattutto per il suo ruolo di sede centrale delle varie circostanti terre(la tradizione seicentesca dello “Stato di Pescolanciano”) acquisite ed amministrate dal Casato, quali Castiglione, Carovilli, Civitanova del Sannio, Sprondasino, Civitavetere. In detto territorio, intorno al 1645, fu avviata nel feudo,ad opera del barone Giovanni (1574-1654), zio di Fabio, un’attività di allevamento di cavalli “saltatori”, razza selezionata per soddisfare particolari richieste di illustri cavalieri del Regno di Napoli, segnando l’inizio di una rinomata attività ippico-cavalleresca presso il maniero, proseguita fino al XIX° secolo. Questa attività gestita dalla famiglia divenne poi anche materia di trattati poetici-letterari sotto il terzo duca Gio.Giuseppe d’Alessandro (1656-1715). Ad inizio del XVIII° secolo detto personaggio abbandonò la vita sociale e politica della città di Napoli, ove risiedeva, per dedicarsi alla nutrita passione letterale ed a quella equestre. Dall’unione di tecnica ed arte poetica, colorata di assiomi esoterici, scaturì l’insigne trattato “Pietra di Paragone dei Cavalieri”, edita in prima edizione nel 1711 da D.Parrino. Quest’opera, divisa in cinque libri, sulle regole di cavalcare, curare le infermità dei cavalli, espletare la professione di spada ed armi fu a detta del D’Afflitto nelle “Memorie degli Scrittori del Regno di Napoli” (1782), un trattato miliare tanto “(…)che nelle contese di spada, e del merito di un cavallo, a Lui come ad oracolo si ricorrea”. A questo personaggio accademico, legato alla corrente poetica del Marini, si attribuiscono i componimenti poetici successivi, quali “Selva Poetica” del 1713 ed “Arpa Morale” del 1714. L’indole artistico-poetica del duca lo spinse a collezionare negli appartamenti di questa dimora molisana una ricca ed interessante pinacoteca di opere pittoriche (209 quadri risultano elencati nell’inventario del 1715, a soggetto religioso, nature morte, battaglie etc.) di famosi autori, quali il Caravaggio, il Brughel, Fracanzano, Pesce. Il castello divenne, quindi, riferimento culturale di vari personaggi accademici amici del d’Alessandro e continuò ad esserlo con il figlio Ettore (1694-1741), che fece ristampare nel 1723 l’opera del padre “Pietra di Paragone”, ampliata con ulteriori scritti e tavole illustrative tra le quali varie figure di fisionomie tratte dal libro di Giambattista della Porta. Il duca Ettore ospitò, durante l’esilio forzato in Pescolanciano per sfuggire all’ostile occupazione Asburgica (1707-1734), anche diversi intellettuali contrari ai nuovi governanti. Tra questi, il gentiluomo cosentino Pirro Schettini, le cui rime vennero recepite dal cavalier Basile dell’Accademia degli Oziosi. La dimora fortilizia dei d’Alessandro riscosse ulteriore fama e riconoscimenti sul finire del ‘700, allorquando si sviluppò l’intraprendente iniziativa di produzione di raffinati manufatti in ceramica ad opera del sesto duca Pasquale Maria d’Alessandro (1756-1816). Tra il 1780 ed il 1795 la piccola fabbrica di ceramiche, collocata nelle pertinenze del castello, sfornò prodotti di varie tipologie e materiali (piatti, vasellame, teiere, zuppiere, nonché busti e soggetti neoclassici in biscuit), tanto da divenire concorrenziale alla regia fabbrica di Capodimonte in Napoli. Maestranze napoletane e venete vi prestarono servizio con proprie rispettive esperienze e professionalità. Una tale audace attività imprenditoriale, rivoluzionaria per la provincia molisana e per la secolare economia feudale del Casato, necessitò di sostegni governativi che vennero a mancare, decretandone la fine agli inizi dell’800 con lo smantellamento delle fornaci.Dopo un periodo di crisi economica e di impegni finanziari assolti dalla famiglia per restaurare il palazzo gentilizio incendiatosi di via Nardones in Napoli (1798)ed il diruto castello, sconquassato dal terremoto del 1805 con gravi danni e perdite di documenti ed oggetti dell’epoca, il sito culturale di Pescolanciano tornò a “nuova luce” sotto la guida dell’ottavo duca Giovanni Maria d’Alessandro (1824-1910). Gentiluomo di camera di Sua Maestà Ferdinando II, per la sua sentita passione archeologica fu scelto dalla Corte napoletana per dare ospitalità, tra il 1846-47, allo storico tedesco ed archeologo (poi premio Nobel nel 1902) Teodoro Mommsen, durante la visita agli scavi di Pietrabbondante. Il duca seguì con grande impegno ed interesse questi lavori di recupero di resti monumentali sannitici, tanto da esserne nominato Sovrintendente Regio. Questa passione per le “cose antiche” incoraggiò Giovanni Maria nell’opera di completamento dei lavori di restauro del castello in Pescolanciano. Tali interventi si conclusero nel 1849 con sostanziali modifiche di alcune facciate ed ambienti interni tanto da trasformare l’antica struttura fortificata nell’attuale residenza palazziata (le merlature del sopravvissuto camminamento di ronda si trasformarono in loggiato coperto con cinque arcate aperte, la chiesetta-cappella ridimensionata, il tavolato a cassettoni di alcuni soffitti trasformati in volte). La ben nota fedeltà di detto duca Giovanni alla dinastia borbonica, portò il Casato ad estraniarsi dalla vita politica-sociale del nascente Regno d’Italia, a tal punto da far passare inosservata alla nuova compagine accademica l’attività poetica svolta dal di lui figlio Alessandro d’Alessandro (1862-1943). Numerosi, infatti, furono tra fine ‘800 e inizi del ‘900 i compendi poetici dati alle stampe dal giovane d’Alessandro, che garantirono nel corso del ‘900 la continuità dell’attività culturale presso il castello. Delle opere si ricordano: “Modi Flebiles” (1894), “Epigrammi”, “Bellezza fatale”, “Dall’ultima esperie” (1898), “Il libero pensiero allo specchio”, “I 33 anni di Gesù” (1904), “La macchina vivente” (1908).
Infine,nel rispetto della suddetta tradizione familiare storico-culturale ed ippica, il discendente Mario d’Alessandro (1883-1963) figlio di Nicola M.III fu fin dall’infanzia provetto ed appassionato cavallerizzo e intraprese sin dalla giovane età una esclusiva collezione di carrozze e finimenti, che poi donò nel 1962 al museo civico di Villa Pignatelli in Napoli,conformemente al mecenatismo dei suoi antenati.
Gli attuali eredi hanno,così, ritenuto opportuno fondare nel 1996 il Centro Studi d’Alessandro, con il fine di valorizzare l’antica dimora di Pescolanciano e la sua storia, nonché le aree monumentali locali con il rispettivo passato, fatto anche di tradizioni socio-religiose molisane ormai in via di estinzione. E’ stata anche riattivata una limitata produzione di ceramiche (“Ceramica P”), con la speranza di abbinare un’opportuna area museale.
Dal matrimonio di Lorenzo, figlio di Petro Cola, con Cecilia de Angelis (della famiglia imperiale greca) nacque Gio.Francesco, che con la moglie Rita Baldassarre di Roccaraso riscattarono la sopravvenuta confisca e decadenza familiare di metà ‘500(a seguito dei moti antispagnoli del 1547) con l’acquisizione della baronia di Santa Maria dei Vignali e di Pescolanciano (1576). Da tale capostipite è derivato l’odierno ramo vivente dei duchi di Pescolanciano (con titolo ducale riconosciuto a Fabio Jr.nel 1654). Si ricordano tra gli ascendenti di tale linea: il terzo barone Gio.Gerolamo (+1642),coniugato a I.Sommai(famiglia di origine toscana), per l’acquisizione delle baronie di Carovilli e Castiglione(1619) nonché di Civitanova del Sannio e Sprondasino (1627); il di lui fratello cav.Giovanni (n.1574,+1654),noto per la scuderia di cavalli “saltatori” in Pescolanciano; altro fratello Agapito (n.1595+1655),marito di Beatrice Ferri, per l’acquisto del feudo di Civitavetere(1629).Il successivo discendente, I° duca Fabio (n.1626,+1676), di Agapito, invece eseguì rilevanti lavori di ristrutturazione del maniero edificandovi un’area sacra, ove trasferì nel 1656 le sacre reliquie del martire S.Alessandro, venerate secondo un rito religioso (iniziato da suo fratello,l’Abate Alessandro) rifacendosi alla tradizione templare del Casato.Suo figlio secondogenito Gio.Giuseppe (n.1656+1715), oltre ad abbellire la dimora castellana in Pescolanciano con numerose opere d’arte di artisti famosi, è noto alle cronache per il suo impegno letterario. Riconosciuto poeta barocco dall’Accademia degli Oziosi, Giuseppe fu autore delle seguenti opere: “Pietra di Paragone dei Cavalieri, Arte del Cavalcare”(1711,1714), “SelvaPoetica”(1713), “Arpa Morale”(1714). Il primogenito duca Ettore (n.1694+1741) ristampò poi (1723) con ulteriori aggiunte poetiche il componimento paterno,Arte del Cavalcare ed a costui spettò ereditare (1729) dalla madre, Anna M.Baldassarre Marchesani, i feudi di Castel del Giudice e Roccacinquemiglia. Suo successivo nipote Pasquale Maria d’Alessandro (n.1756+1816), figlio del V°duca e X°baro.Nicola M. ed Eleonora Castromediano Limburgo Acquaviva d’Aragona, acquisì il feudo di Pietrabbondante (1789).Costui, appassionato di alchimia, fu celebre perché fondò la nota fabbrica di ceramiche e porcellane presso il castello di Pescolanciano(1783-1795), producendo diversi manufatti (con variegati decori, quali le insegne araldiche del Casato o le palme sull’isola, i salici con gli uccelli, fiorature al ticchio), conservati presso vari musei italiani (S.Martino/Artistico e industriale/duca di Martina in Napoli, Faenza, Baranello) ed esteri (Louvre, Sanpietroburgo per donazione fatta allo zar Paolo I delle Russie).Fu insignito della croce di devozione del S.M.Ordine Gerosolimitano (1794), in cui furono cavalieri professi lo zio Francesco (1778) ed il fratello Francesco Maria(1795).Il duca Pasquale, gradito da re Ferdinando IV di Borbone per le sue capacità artistiche, fu nominato Sovrint.delle fortificazioni e direttore di ponti e strade in Napoli(fine XVIII° sec.), nonché socio della Soc. Economica della Prov. di Molise(1810).Il nipote, VIII°duca Giovanni Maria (n.1824+1910) di Nicola M.II ed Aurora Ruffo Scilla di Calabria, conservò la passione per le arti e la storia, occupandosi degli scavi archeologici di Pietrabbondante (in qualità di Sovrintendente Regio,1857) con sommo plauso dell’amico archeologo tedesco Theodor Mommsen. Fedele alla dinastia dei Borbone, il duca Giovanni fu: capo plotone della Guardia Cittadina (sotto il comando di S.A.R. Leopoldo di Borbone,1847); consigliere Prov.Campobasso(1851); capo plotone Guardia d’Onore Prov.Molise(1855); presid.Consigl.distretto d’Isernia, ottenendo l’onoreficienza delle “Chiavi d’Oro”(1858). Per il suo coinvolgimento nei moti legittimisti in Molise, contro l’esercito piemontese, fu fregiato dal re Francesco II di Borbone della “Gran Croce” S.R.M.Ordine Costantiniano(1860), seguendolo nell’esilio in Roma, ove risiedette fino al 1865, ritornando poi a Napoli seppur sempre collegato alla corte borbonica.
L’origine di questo ramo agnatizio dei de Alexandro, patrizi napoletani,che secondo taluni araldisti fu quello primogenito agli inizi del ‘400, si fa discendere a quei “d’Alessandro che avevano feudi nelle Puglie”. Difatti, si concorda con il De Daugnon (La Ducal Casa..,op.cit.) nell’identificare, quale capostipite, il “vir de Neapoli” Sansonetto (Simonetto, secondo Montecco Erodoto nel suo manoscritto del 1697).
Costui fu figlio primogenito del milite Giovanni III de Alexandro, noto nel Regno per essere Gran Camerario di Calabria nonché maresciallo del Regno di Napoli e giustiziere degli Scolari. Detto padre, come già scritto, ricoprì pure la carica di consigliere della regina Giovanna II, la quale per la fiducia accordatale concesse al nobile Giovanni la baronia di Casanova (Casalnuovo). Si è tramandato oralmente presso Casa d’Alessandro che detto Giovanni, ancora in vita nel 1471, fosse stato tra i “favoriti” personaggi legati alla sovrana angioina anche da storia sentimentale. Del resto, in merito alla citata regina, figlia del duca Carlo III e Margherita di Durazzo, è risaputo che essendo succeduta nel 1414 al fratello Ladislao I in tarda età si trovò sola ed impreparata a governare un regno instabile, colpito da insidie ed avversità (dagli acerrimi contendenti Alfonso V d’Aragona e Luigi d’Angiò). Tra i condottieri/consiglieri favoriti della regina sono ricordati quelli più noti, quali Bartolomeo Colleoni, Jacopo Caldora, Muzio Attendolo Sforza, Giovanni Caracciolo ed altri uomini “forti”, capaci di aiutarla nella difesa del regno. La stretta vicinanza dei d’Alessandro alla corona angioina resta, comunque, confermata anche dal fratello del Sansonetto, Paolo/Paolello, che ottenne la nomina di direttore del Gran Sigillo e segretario (1418) della medesima regina Giovanna. Inoltre, risulta che anche il Sansonetto fu spesso citato come “familiare della Regina Giovanna II”[i] tanto da ricevere, per tale legame al trono, la nomina nel 1415 di governatore di Montefusco[ii]. Per tale rapporto di fedele sudditanza agli Angiò, il governatore d’Alessandro si schierò con prontezza nel settembre del 1416 dalla parte di quella nobiltà legata alla sovrana, che con il sostegno del popolo prese d’assedio Castel Nuovo in Napoli, ove Giovanna II era stata imprigionata dall’ultimo marito Giacomo II di Borbone, conte di La Marche.
Per tale coinvolgimento, Sansonetto ricevette nel 1423 come riconoscimento regale la carica di governatore di Lucera e Foggia nella provincia della Capitanata(scrive il Montecco “ad esercitare l’officio di Capitano della città di Lucera, e della terra di Foggia”).
Nonostante la caduta della dinastia degli Angiò-Durazzo, a seguito della morte di Giovanna nel febbraio del 1435 e della sconfitta del suo riconosciuto successore Renato d’Angiò, nonché la salita al trono di Alfonso I d’Aragona (re di Napoli e Sicilia), Sansonetto d’Alessandro continuò a mantenere delle cariche governative. Alla data del 26 giugno 1444 il “quaternus” Aragonese[iii] segnala il Sansonetto come “razionale”(maestro della regia Camera?) inviato da Francesco d’Aquino a riscuotere gabelle insieme a Giulio di Capua in provincia di Principato Ultra e Capitanata tanto per le funzioni dei maritaggi quanto per quelle fiscali. In quest’ultima provincia il suddetto d’Alessandro ricoprì anche la carica di capitano di Manfredonia nel 1444. L’anno successivo, il 18 ottobre 1445, ricevette poi l’incarico di realcommissario in provincia di Abruzzo Citra, che disponeva di una delle due “giustizierie apruziense”, continuando a riscuotere gabelle per la corona dai baroni ed università[iv]. In questo periodo vi è risultanza di diversi incassi di cedole di Tesoreria del re Alfonso I d’Aragona, eseguiti in Capitanata, nella terra di Bari[v], dal detto Sansonetto che agiva con Francesco Maines nell’incarico di (Regio) commissario. Risulta, inoltre, che nel 1445 costui fu scelto quale delegato per la revisione dei conti della Regia Camera, nonché per la Tesoreria. Dal 1456 fino al 1467 risulta essere “Sansonectus rationalis”[vi], cioè ancora operoso nella sua carica di funzionario della Camera della Sommaria, mentre il di lui familiare Andrea d’Alessandro risultava essere Regio consigliere nel 1459. Sansonetto sposò Maria de Liguorio e dalla loro unione nacquero Giovannello/Govantello, Diana ed Antonio.
Di Giovanni/Giovannello è noto l’incarico di Capitano della Guardia del porto di Napoli,sotto re Ferrante, nonché Portolano del porto di Fortore (Lesina) alla data del 16 giugno 1481. Da costui si ritenne essere disceso il ramo d’Alessandro di Ascoli S. e poi di Melfi. Diana visse tra la fine del XV° e l’inizio del XVI° secolo ed è annoverata nella biografia della famiglia Capasso del seggio di Porta Nova[vii] per essere costei “del seggio di Porto di Napoli, figlia di Sansonetto e di Maria di Liguorio”, nonché essere stata data in sposa a Luigi Capasso[viii]. Antonio, invece, fu Capitano del porto di Fortore nel 1480 e successivamente “consigliere, e Presidente del Sacro Regio Consiglio nel 1483”[ix].Lo stesso sposò Ippolita Villano/i del seggio di Montagna, con la quale generò i figli Maria e Vincenzo, come testimoniato anche dal Ricca (E.Ricca, Istoria de’feudi del regno delle Due Sicilie di qua dal faro..).Vincenzo, secondo Montecco Erodoto, fu invece “figlio di Petronillo”(Pietro Cola) ed il medesimo,insieme al figlio diJacobuccio/Iacovo Sansonetto, ottennero decreto di reintegra al sedile di Porto nel 1518.E’ appurato, comunque,che lo stesso nel 1533 rivestiva la carica di capitano del porto di Fortore[x] e maritò agli inizi del XVI° secolo donna Lucrezia d’Alessandro, figlia del barone di Cardito Marino d’Alessandro. Con tale matrimonio e successivi si rinsaldarono i legami tra i due rami del medesimo ceppo napoletano.
Figli di Vincenzo furono:
Donna Isabella che si maritò nel 1539[xi] con Giacomo Strambone della terra di Somma e seggio di Porto, di Antonio e Lucrezia di Turri. Circa l’origine di Isabella d’Alessandro viene scritto nell’opera seicentesca del De Lellis che “fu nipote dell’Abate Alessandro d’Alessandro eruditissimo cavaliere di cui è eterna la fama del suo nome, per gli famosi Giorni Geniali, che pubblicò co’ grido di tutti i letterati alle stampe”. Tale annotazione, riportata dallo studioso dell’epoca, vicino a detti personaggi di Casa d’Alessandro, conferma la tesi genealogica anche di altri storici di quel periodo secondo la quale il noto umanista giurisperito Alessandro appartenne ai d’Alessandro,patrizi napoletani del sedil di porto. Risulta,poi, che Isabella si risposò in seconde nozze con Marcello Sanfelice di Bagnoli del seggio di Montagna (C.De Lellis,Op.cit.,p.320).
Altro figlio di Vincenzo fu Giovanni Battista I° d’Alessandro che si sposò, a fine ‘500, con Vincenza Origlia del seggio di Porto, figlia del barone di Canzano Andrea Origlia e di Adriana Mastrogiudice[xii] . Da costui, quale primo esponente citato dal Serra (Serra di Gerace, manoscritto fine ‘800) sui d’Alessandro della Castellina discesero 7 figli tra cui:
1.Urania, nata nel 1518. Sposò il giurisperito Fabio Giordano, di cui il De Lellis[xiii] lasciò tale descrizione: “Chiaro per l’erudite historie latine, che scrisse, co’ le quali dalle tenebre dell’oblio illustrò l’antichità della sua patria Napoli”. Dal succitato matrimonio si generò Laura, unitasi poi con Vincenzo Strambone. Urania visse circa sessanta anni come si evince dal suo sepolcro sito nella chiesa dei Santi Severino e Sossio in Napoli, presso la cappella della famiglia Giordano[xiv], con data mortuaria 1578.
2.Camillo,altro figlio di Giovanni B.I°, indossò l’abito gerosolimitano diventando cavaliere professo di Malta, ricevuto nell’Ordine il 25 giugno 1574.Era ancora vivente nel 1587, allorquando si trovò ad esaminare ed accogliere le prove nobiliari di D.Mario Blanch, in qualità di Deputato Commissario della Religione, insieme a Frà Vespasiano Longo, in data 5 giugno 1587 (Camillo Minieri Riccio, Catalogo di MSS. della Biblioteca, Vol.3°, Napoli 1869,p.51).
3.Lelio nacque l’8 gennaio 1562[xv] e sposò il 30 giugno 1602 Lucrezia Macedonio della terra d’Otranto e del seggio di Porto nella chiesa di San Giovanni Maggiore in Napoli[xvi]. Da Lelio è proseguita la discendenza con 8 eredi.
4. tra le altre sorelle,oltre a Claudia e Costanza (nata il 16 luglio 1560 in S.Giov.Magg.-Na), Cecilia sposò il 29 gennaio 1563 D. Mercurio d'Alessandro barone di Cardito.
Gio.Francesco, nato il 19 febbraio 1604, sposò Girolama Carafa, il cui unico figlio fu Lorenzo che non ebbe figli.
I figli di Lelio, continuarono la discendenza e furono:
1.Vittoria, nata nella seconda metà del XVI sec., sposò il 17 gennaio 1589(S.Giov.Magg.) Felice di Gennaro, marchese di S.Massimo consigliere e poi presidente (1626) del Sacro Regio Consiglio[xvii], che nel 1612 acquistò il palazzo Colonna di via Mezzocannone[xviii] in Napoli, ove portò a viverci la consorte d’Alessandro. Il 4 luglio 1647 risulta Vittoria citata per una girata di una cambiale a credito, testimonianza di un suo diretto coinvolgimento nella gestione patrimoniale del marito[xix].Costei morì nel 1656, senza lasciare figli.
2.Simone, sposò Lucia Chioni Spadafora di Lucera e morì il 1 febbraio 1652,lasciando 3 figli senza progenie.
3.Agata, monaca-badessa del monastero della Santissima Trinità in Napoli, alla data del 1612.
4.Gio.Lorenzo I° fu Governatore del Monte della Misericordia in Napoli (1612) e Deputato della Salute del seggio di Porto (1647/56).Costui sposò, in prime nozze, Claudia Venato del seggio di Porto, il 24 giugno 1589 in S.Giovanni Maggiore ed in seconde nozze con Adriana Macedonio del seggio di Porto, il 1 aprile 1592, sempre in S.Giovanni Maggiore. Da costui, con i suoi 9 figli, si generò il ramo detto di "Ciccio", come testimoniato da Montecco Erodoto nel suo menzionato manoscritto seicentesco.Difatti, un suo figlio Gio.Francesco nacque nel giugno del 1595, sposandosi prima con Vittoria Riccardo, figlia del consigliere Fabio marchese della Ripa, poi con Camilla Pandone (21 ottobre 1656) ed infine con Teresa Sersale del seggio di Nido. Con costoro procreò un totale di 12 figli, tra i quali alcuni scelsero la vita religiosa(ad esempio,Fra Bonaventura del monastero di S.Lorenzo), altri si sposarono, come Agnese con D.Carlo Montoya, il 24 aprile 1638 in S.Giovanni Magg. Gio.Francesco (Ciccio),comunque, dovette godere di buona stima in Napoli tale da essere menzionato nelle cronache del tempo ed essere stato scelto nel citato testamento di Fulvio-Mercurio d'Alessandro del ramo di Cardito, quale erede preferito con la sua discendenza mascolina dei beni di tale famiglia. Una scelta, caduta su di lui e lo zio Giovanni Battista II, volta a garantire la continuità politico-economica della famiglia d'Alessandro in Napoli. Purtroppo, la linea genealogica di Ciccio si estinse poco dopo l'apertura del suddetto testamento, a fine XVII° secolo.[xx]
5.Gerolamo fu gesuita, mentre altri figli furono Antonio (n.24 aprile 1607), Geronima (n.5 sett.1613), che fu dama-socia del Monte dei 29 in Napoli nel 1647(Istituzione assistenziali formata da esponenti delle 29 famiglie napoletane, a metà '600 risultavano dame-iscritte : Geronima di Lelio d'Alessandro, Suor Bonaventura/Eleonora di Gio.Lorenzo d'Alessandro,Giovanna di Mercurio d'Alessandro e moglie di Gio.Battista II, Maria; F.Nicolini, Notizie tratte dai giornali copiapolizze degli antichi banchi intorno al periodo della rivoluzione napoletana del 1647-48,Vol.I, Napoli 1952-53,p.633), sposò Gio.Pietro De Posellis, barone di Parolise (AV).
Note:
[i]De Daugnon, La famiglia d’Alessandro, patrizi napoletani, Milano 1880. L’autore riporta in una nota il decreto di nomina del Sansonetto in cui si dice: “uomo nobile e familiare della Regina Giovanna II”, tratto dal Registro Angioino 372, anno 1415,fol.41 dei Quaternus Privilegiorum
[ii]Tale cittadina sita tra Avellino e Benevento fu sede della regia Udienza della provincia del Principato Ultra, cioè sede del tribunale provinciale con relativo carcere giudiziario, posto nei sotterranei dell’antico castello del borgo che fu trasformato in palazzo del tribunale in epoca aragonese.
[iii] C.Filangeri, Testi e documenti di storia napoletana pubblicati dall’Accademia pontaniana, frammenti dei registri, Vol.IV, Na,1964, citazione II. Franciscus de Aquino, Universis etc. mandat quaternus Sansonectum de Alexandro de Nespoli et urbanum de Julyeo de Capua pro pecunia recepita pro parte vicemgerentis in Provincia Principatus Ultra e Capitanate, tam collectarum maritagli quam aliarum fiscalium functiorum
[iv]C.Filangeri, Ibidem,Commune Summariae (1444-1459) p.48. Alfonsus rex etc. Ferdinandus etc. Nob. Viro Sansonecto de Alexandro de Neapoli, r.commissario in provincia Aprutii Citra etc. Precipit quatenus procereres, magnates, comites et barones ac universitates quarumcumque civitatum, terrarum, castrorum et locorum dicte provincie ad solucionem iurium adoharum feudaliumque serviciorum ac collectarum generalium pacisque et victorie ac aliarum quarumcumque fiscalium imposicionum etc. ante reductionem ipsorum procerum, comitum etc. ad r.fedelitatem impositarum nullatenus compellat contra tenorem r.licterarum que sunt vid.
[v] Le cittadine seguite dal Sansonetto furono: Ischitella (FG),Veste, Vico (del Gargano) sotto monte Sant’Angelo (fol.13); San Bartolomeo, San Giovanni Rotondo sotto San Giuliano (di Puglia) (fol.13 t); Caprino, Cagnano, Petracatella, Molfetta, Trani, Cellammare, Capurso, Gravina. Ibid., frammenti di Cedole della tesoreria di Alfonso I, 1446-1448, pp.77-79,113
[vi] Ibid., Vol XIII, Na, 1990 curie sommarie 1465-1469.
[vii] C.De Lellis, Famiglie nobili del Regno di Napoli, Parte II, Na, 1663, p.225.
[viii]Luigi, figlio di Goisué e di Medea di Catania, fu nel 1478 Luogotenente del Regio Commissario Francesco delli Monti ed ebbe dal citato matrimonio 5 figli: Giosué, Girolamo, Matteo, Roberto e Annibale.
[ix] B.Aldimari, Memorie delle famiglie imparentate con la Famiglia Carafa, detta Stadera, Vol.IV, Na, 1691, p.372.
[x]Tale porto altro non fu che un approdo ubicato alla foce del fiume Fortore, nascente presso Montefalcone di Val Fortore (BN), nel mare Adriatico nei pressi del lago di Lesina (FG).Un’antica torre, detta di Fortore, era ivi collocata a difesa dei traffici commerciali via fiume e forse dimora del capitano e sua truppa di presidio.
[xi] C.De Lellis, Op.cit., p.317 In una nota dell’autore si rinviene che i capitoli matrimoniali furono redatti dal notaio Marc’Antonio Scoppa di Napoli il 23 novembre 1539.
[xii]Ibid .p.293.
[xiii]C.De Lellis, Op.cit., p.319.
[xiv] Il d’Engenio descrive detto sepolcro riportando quanto impresso nella lapide marmorea ancora oggi visibile.”Urania de Alexandro uxori carifs atq. Incomparabili qua cum ann.VI suavissime vixit, cuius nihil inquam nisi mortem doluti.Fabius Iordanus infelix coniux, contra votum P. vixit an.XXV obijt M.D.LXXVIII . C.D’ENGENIO, Napoli Sacra, Na, 1624, p.323.
[xv] Serra di Gerace, Appunti araldici, Archivio di Stato di Napoli, Vol.5, n.1493-98.
[xvi]Detta chiesa, posta presso l’Università in vicinanza dell’area del porto di Napoli (seggio di Porto) fu spesso utilizzata per battesimi e matrimoni dai d’Alessandro di detto ramo Castellina, forse per la vicinanza alle dimore di questi. Probabilmente, vi fu un sepolcro della famiglia.
[xvii]C.De Lellis, Op.cit., p.269. Circa la memoria su costui l’autore ricorda le annotazioni fatte da padre Gio.Battista d’Orsi nel suo libro degli Elogi sulla figura di Felce de Gennaro : « Felix Ianuarius e patrum Curia Equestris Ordinis Portus, Sagatus, Togatusque Miles ; At utramque Iani frontem expetitus, Fortuna maior sua … »
[xviii]A. De Rose, I Palazzi di Napoli, Na, 1999,p.234.
[xix]F.Nicolini, Notizie tratte dai giornali copiapolizze degli antichi banchi intorno al periodo della rivoluzione napoletana del 1647-48, Vol.I, Na, 1952-53,p.93.
[xx] Montecco Erodoto nel manoscritto Esame della Nobiltà Napoletana..." del 1697, così, riferisce sul ramo familiare in questione: "Da costoro (capostipite Vincenzo) sono discese due Case, cioé quella di Ciccio, che si puol dire estinta, poiché avendo avuto 3 mogli , la prima di Casa Riccardo figlia del Consigliero Fabio, la seconda Camilla Pantone, e la terza Ferea Sersale, con le quali ultime non fece figli, ma bensì con la prima fè fra Bonaventura frate in S.Lorenzo, oggi detto il Padre Mestro Alessandro. Don Gironimo, il quale avendo dissipato tutto il Patrimonio, appresso l'archivio non si sa ove sia morto, Don Lorenzo essendo divenuto cieco se n'è morto. Don Giuseppe vivente, e vecchio in età, non si è casato, e a questi si riduce il ramo di Ciccio, il quale anco procreò una femmina chiamata Donna Agnese, maritata a Don Carlo Montria".
[xxi]La chiesa dei SS. Severino e Sossio sotto i padri benedettini, protettori delle arti, fu arricchita di importanti opere monumentali artistiche e numerosi dipinti.
[xxii]F.Carafa, Notizie storiche intorno alla chiesa dei SS.Severino e Sossio, Na, 1876, p.10.
[xxiii]C.D’Engenio, Napoli Sacra, Na, 1624, p.332.
[xxiiii]Lando, nipote del barone rossocrociato Guido/Guidone d’Alessandro di Roccagloriosa citato nel “catalogo dei baroni del Borrelli (Na, 1653, p.56) per la sua diretta partecipazione alla terza crociata (1189-1192) in terra Santa, risultò essere importante componente con frate Giovanni di Lorenzo, l’oblato Giovanni Cono ed altri della comunità templare della chiesa di S.Paterniano di Ceprano, a detta delle recenti ricerche del Bramato (Storia dell’Ordine dei Templari in Italia, Rm 1991, p.74). Precettoria che ricevette esenzione da Carlo I d’Angiò dal divieto imposto di entrare nel regno di Sicilia ed anche una rilevante indulgenza.
[xxv]A.Silvestri, Sull’attività bancaria napoletana durante il periodo aragonese, Na, 1953, pp. 22,42.
[xxvi]C.De Lellis, Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Parte II°, Na, 1663, p.274.
[xxvii]B.Aldimari, Memorie delle famiglie imparentate con la famiglia Carafa, Vol.IV,Na, 1691, p.372.
[xxviii]Sulla tradizione templare del casato d’Alessandro è stata effettuata una prima ricerca pubblicata da C.Di Paola, Sulle tracce dei Templari in Molise, CB, 2001. Ulteriori approfondimenti riguardano taluni esponenti del ramo Pescolanciano e sono in corso d’opera. E’ importante, in merito, ricordare come i templari furono ben accetti presso i sovrani Angioini di Napoli, dinastia alla quale rimasero fedeli numerosi ascendenti di casa d’Alessandro come già evidenziato, anche perché fu ritenuta preziosa la loro nascente attività finanziaria e banchiera ( cfr. F.Cardini, I segreti del Tempio, FI, 2000, p.20. Lo storico scrive “i templari furono così i primi banchieri d’Europa e il loro ruolo divenne sempre piùimportante nella rinascita del commercio dei secoli XII – XIII”)
[xxviiii]M.Dell’Olmo, Montecassino, un’abbazia nella storia, Montecassino, 1999, p.76.
[xxx]Ibid. pp.205-206.
[xxxi] Ibid, p.219.
[xxxii]Ibid, p.208.
Circa questa discendenza del ramo “Castellina” c’è da dire che detta acquisizione feudale avvenne successivamente nel XVII secolo e pertanto costoro erano considerati patrizi dell’unico ceppo napoletano dei d’Alessandro del sedile di Porto. Difatti, vivevano nello stesso periodo altri familiari, poi, identificati in rami diversi sviluppatisi in epoche diverse. Un esempio di vicinanza familiare contemporanea ai citati ascendenti della “Castellina” è la figura di padre Crisostomo d’Alessandro, figlio di Ignazio, divenuto abate del monastero di Cassino. Costui, indossò l’abito talare nella già citata chiesa dei Santi Severino e Sossio in Napoli, ove fu padre professo già dalla data dell’11 aprile 1490. Tale basilica con suo convento fu luogo di frequentazione e di sepoltura di vari esponenti del casato d’Alessandro e proprio nel 1490 i padri benedettini iniziarono a realizzare importanti ampliamenti, sostenuti poi con gli aiuti di re Alfonso d’Aragona (il 12 marzo 1494) e della famiglia Mormile di Campochiaro per circa 15 mila ducati ciascuno[xxi]. Di certo taluni sepolcri dei d’Alessandro dovettero essere collocati lungo il pavimento che fu fatto “tutto di marmi di più colori con moltissimi lapidi sepolcrali e stemmi gentilizi” , come testimoniò il Carafa.[xxii] A queste urne si aggiunsero le cappelle gentilizie che furono edificate nei vari secoli (Sanseverino, Carafa d’Andrea della Stadera, Cicara, Mormile, de Medici) tra le quali quella citata dei Giordano ove fu riposta la salma di Urania d’Alessandro. Vi è, poi, documentazione certa circa l’esistenza dell’urna funeraria di Severo d’Alessandro, documentata da Cesare d’Engenio nella Napoli Sacra[xxiii], la cui descrizione lapidea è la seguente:
“Severus de Alexandro sua suorum oposterorum cum agnatorum tum gentilium ossa hic feruanda constituit.MCCCCLXVII”
Il sicuro legame familiare esistente tra Severo e Crisostomo, su cui è in corso una ricerca specifica, fa pensare che non a caso il prelato iniziò la sua carriera religiosa proprio dalla chiesa dei SS.Severino eSossio. In merito a Severo d’Alessandro, morto nel 1467 e nato tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, si è discusso sulla ignota provenienza di una consistente ricchezza giuntagli dalla Puglia. Leggenda vuole che tale tesoro fosse eredità della ricchezza raccolta dal templare Lando de Alexandro[xxiiii], erede del miles Christi Guidone deAlexandro, barone di Roccagloriosa. Severo, con il familiare Antonello, risultò difatti tra quei mercanti-banchieri che aprirono un banco al tempo di Alfonso I d’Aragona nel periodo compreso tra il 1443 e il 1455, come segnalato da Alfonso Silvestri nella sua pubblicazione sull’attività bancaria napoletana[xxv]. Diverse operazioni di credito con svariati personaggi di corte o meno testimoniano l’intensa attività finanziaria svolta dai d’Alessandro. Con tale ascendente, comunque, la famiglia d’Alessandro risultò,in primis, essere ascritta al sedile di Montagna (la cui circoscrizione comprendeva la parte alta della città) come dai protocolli del notaio Pietro Ferrillo in SS.Apostoli, in data 21 maggio 1460. Lo stesso De Lellis nei suoi “Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno”[xxvi] testimoniò detta iscrizione, segnalando che Galeazzo Origlia intervenne “insieme con Gurone suo fratello, Paulo Poderico, FabritioRosso, Nicolò Luca Carmignano e Andrea Cotugno deputati del seggio di Montagna ad aggregare a quella nobiltà Severo d’Alessandro e Lorenzo Palombo”. Infine, si rinviene ulteriore documentazione di conferma su tale “aggregazione”dalla sezione diplomatica del Grande Archivio di Napoli, Repertorio n.1 p.6, compilato dal Griffo.E’ chiara la posizione di rilievo e prestigio goduta da Severo d’Alessandro anche sotto la regnanza degli Aragonesi tanto da essere ricordato dallo storico Biagio Aldimari nelle “Memorie delle famiglie imparentate con la famiglia Carafa” [xxvii] , il quale lo citò per l’appartenenza al suddetto sedile partenopeo.
La chiesa dei Santi Severino e Sossio fu, comunque, luogo sacro frequentato e caro ai d’Alessandro, i quali rimasero legati anche per l'antica tradizione dei “Cavalieri del Tempio”, cui il Casato rimase ancora memore nei secoli successivi alla loro soppressione[xxviii] , come testimonia la piccola croce funeraria impressa nella lapide sepolcrale di Severo d’Alessandro, da vari studiosi ricordata ma ad oggi non individuata. Una continuità negli ideali e simboli dei "poveri cavalieri di Cristo" che si rinviene anche con lo stesso Abate Crisostomo, spostatosi a Montecassino presso il convento benedettino, luogo ben noto a detti "miles Christi" (come si evince da certe lapidi nella cripta sotterranea), ove fu chiamato a reggere tale carica già nel 1527. Questo primo suo impegno presso l’abbazia fu mantenuto fino al 1531, allorquando volle indire un importante sinodo presso il monastero[xxviiii]. L’Abate d’Alessandro si interessò dell’ultimazione dei lavori della sacrestia, già avviati dal suo predecessore Squarcialupi[xxx], facendo realizzare il pavimento “con materiale musivo proveniente, com’è probabile, dagli antichi oratori di S.Bartolomeo, S.Andrea e dallo stesso S.Martino”. Nella sacrestia fece porre, poi, dei banchi lignei che furono sostituiti poi nel 1750[xxxi]. Fece chiamare presso il monastero il pittore Andrea da Salerno per la realizzazione della “cona grande”, un polittico raffigurante la storia della vita di S.Benedetto. Don Crisostomo fu rieletto Abate di Cassino una seconda volta nel 1533 e mantenne l’incarico fino al 1538. In detto periodo si occupò della realizzazione del sepolcro marmoreo di Guido Fieramosca, fratello del famoso Ettore, incaricando nell’esecuzione lo scultore Giovanni Merliano da Nola[xxxii]. Occorre segnalare l’esistenza di particolare documentazione epistolare presso l’archivio cassinese (Registro della Congregazione, 1536,p.133) tra don Crisostomo e suo familiare Marino d’Alessandro del ramo dei baroni di Cardito (sostenitori del partito francese filo-angioino), il quale rivestiva in quel periodo la carica di capitano/governatore delle terre del Cedaro in Calabria, ove trovavasi un feudo del monastero cassinese. Crisostomo si rivolse al Marino affinché agisse per la via della più rigorosa giustizia contro alcuni malfattori disturbanti dette proprietà.
Il titolo ducale della Castellina fu riconosciuto a Giovan Battista II, che nacque nel 1580 da D.Lelio d'Alessandro e D. Lucrezia Macedonio. In giovane età sposò Giovanna d'Alessandro di Mercurio (ramo di Cardito), matrimonio voluto per consolidare questo parentado e celebrato il 17 settembre del 1595 nella chiesa napoletana di S.Giovanni Maggiore. Poco più che ventenne, "colle sue sostanze, e col suo senno, e colle sue fatiche" (G.Sersale,Alcune notizie storiche sopra i primi gentiluomini che fondarono il Monte della Misericordia,Napoli 1865, p.34), si prodigò con taluni suoi compagni (Cesare Sersale, Gio.Andrea Gambacorta, Girolamo Lagni, Astorgio Agnese, Gio.Vincenzo Piscicello, Gio.Battista Manso) per la fondazione del Pio Monte della Misericordia (delle 7 opere) in Napoli nel 1601.Fu stabilito "tra loro di dar mano alle opere di carità a prò de' miserabili e con ogni studio perpetuarle..e pretesero estendere la pietà loro in favore de' bisognosi in ogni genere di benj fare",quale misera gente vivente in condizioni disumane e nella totale decadenza morale. Questi gentiluomini-filantropi, scrisse il reverendo Ape, "andavano sovente a servire gli infermi nell'Ospedale degl'Incurabili per apprenderne i documenti in quella viva scuola delle umane miserie". Stabilirono, quindi, che a turno per un mese andavano "per le vie della città accattando limosine a prò di quei tapini"(Ape, Istruzioni per lo governo del Monte della Misericordia,Napoli 1703,p.1), cominciando dal 17 aprile 1601. Inoltre, "ben degno di ritrovare nella nobiltà cristiana più frequenti gl'imitatori.Bel vedere cavalieri principalissimi, che seguaci di S.Ludovico Re di Francia servono con tanto d'amore a'miserabili infermi.E danno loro l'acqua per lavarsi le mani, e presentano i cibi, e rifanno i letti, e ripuliscon la lingua, e fascian le piaghe" (Capitolazione del Monte dell'opre della Misericordia, Napoli 1897, p.11).In poco tempo questi fondatori avvicinarono i "congiunti ed amici" per meglio supportare l'iniziativa, ufficialmente nata il 19 aprile 1602. Tra il gennaio-ottobre del 1603 fu redatto lo Statuto con 32 articoli, per il tramite di una commissione di 6 gentiluomini, quale corpo di "regole e di capi", su cui si fondò il Monte ed a cui i soci dovevano attenersi per il "buon andamento dell'opera".Tra le norme, tra l'altro, si annovera quella di recarsi ogni venerdì a somministrare il pranzo agli infermi dell'Ospedale degl'Incurabili, ed a "largire limosine ai poveri della città". Così come si fissò che l'ammisione di nuovi benefattori avvenisse attraverso una votazione a scrutinio segreto con la maggioranza dei voti, oltre a prevedere un'immediata elargizione di 30 ducati. Le norme stabilirono, in seguito, anche l'ammissione delle donne (1611). Furono, poi, acquistate alcune case "sulla strada Capuana,(ora de'Tribunali)", onde garantire una sede al Monte, a cui si aggiunse anche la costruzione di una chiesa.Infine, nel 1618 fu edificato in Ischia un ospizio per le cure termali degli anziani poveri. In questi anni di crescita e sviluppo del Pio Monte, Giovanni Battista II d'Alessandro si trovò molto impegnato a dare il suo contributo ed impegno per l'Opera, tanto da essere ricordato da uno storico contemporaneo, il Capaccio, nella sua opera:" vive hoggi con gli altri Giovan Battista che per virtù, ed integrità tra suoi e tra gli altri è degnissimo di tutte le lodi che convengono ad un pregiato cavaliere"(G.Capaccio, Il Forastiere: Dialoghi,Napoli 1631,p.726).Nell'agosto del 1609 fu eletto governatore del Monte, carica che mantenne fino al gennaio 1611, in modo ligio alle norme e "zelantissimo perché...crescesse sempre più nei soci per le sante opere giusta gli statuti" (G.Sersale,op.cit.,p.34).Inoltre, "ei quotidianamente con carità di ferventissimo cristiano presedeva alle opere della Misericordia", quotidianamente. Nel febbraio 1622 fu nominato dal governo del Monte per distribuire "una straordinaria limosina ai poveri della città, ché in quell'anno grande scarsezza pativano" (G.Sersale,op.cit.,p.35). Divenuto duca della Castellina (Castel di Lino,Castellino) dalla corte spagnola("dalla munificenza del re Filippo IV di Spagna venne conceduto siffatto titolo a Giovan Battista d'Alessandro ed a'suoi eredi e successori col diploma spedito da Madrid il dì 11 dicembre del 1639, che fu munito dell'exequatur in questo Reame a 30 di maggio del 1640", E. Ricca, Istoria de' Feudi del Regno delle Due Sicilie di qua dal Faro,Vo.I, Napoli 1859, p.355), con la contemporanea acquisizione della terra feudale da Scipione Di Sangro nel 1630 per 10.000 ducati, fu eletto nel 1640, dal suo seggio di Porto, insieme a Gio.Battista Severino e Ferrante Pagano, per rappresentare al Viceré duca di Medina de las Torres protesta contro la nuova imposizione fiscale, gravante su Napoli per sue prammatiche (F.Capecelatro, Annali della città di Napoli,1631 a 1640, Napoli 1847, p.186).Si trovò,poi, coinvolto con la sua figliolanza nei moti del 1647-50 (F.Capecelatro, Diario delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-50,Vol II,Napoli ,pp.478,525). Morì a Pozzuoli, il 24 maggio 1656, nel palazzo del marchese della Valle e fu sepolto nella cattedrale di S.Francesco de'Padri Zoccolanti.
Giovanni Battista II lasciò 5 eredi (Antonio avuto con Giovanna morì quattordicenne) e la discendenza continuò con Andrea I, che acquisì il titolo ducale. Costui nacque l'8 ottobre 1626 in S.Giovanni Maggiore, sposando prima Francesca Albertini del seggio di Portanova, figlia del duca Giulio Cesare, in data 13 ottobre 1654 (S.Angelo a segno), poi Maria di Costanzo. Venne ricordato nell'opera "Arte del Cavalcare" del duca Gio.Giuseppe d'Alessandro di Pescolanciano,perché noto cavallerizzo in Napoli. Nel 1656/7 alla morte del padre Gio.Battista, Andrea pagò relevio sulle scarse rendite: colletta di S.Maria, ducati 12.00;bagliva,ducati 12.00;galline,ducati 12.00;rendite censuarie,ducati 10.00; olio (40 carrafe), ducati 4.00; erbaggio baronale, ducati 20.00; vino delle vigne baronali, ducati 7.00 (P.Fratangelo, Castellino del Biferno tra storia e cronaca fino al 1700, CB 1992,p.102). Causa, poi, l'insorgere di pretese possessorie sul feudo della Castellina per vizi di forma e fiscali da parte dei conti Vitelli, precedenti tenutari di detta proprietà, detto Andrea preferì rivendere il feudo a Scipione Di Sangro (G.Bondini, Demani ex feudali ed universali di Castellino del Biferno-Relazione dell'Agente Demaniale Guido Bondini, p.8).A sua morte, il 19 febbraio 1696, lasciò 5 figli.
La discendenza del ramo d’Alessandro della Castellina sul Biferno, in Molise, è proseguita poi con D.Giulio Cesare, figlio del duca Andrea I d’Alessandro Castellina, vissuto a metà del XVII secolo.Costui, dagli appunti del citato araldista Serra di Gerace, sarebbe nato il 19 giugno 1659 e avrebbe sposato il 29 luglio 1685 Antonia Capace di Luigi .Morì il 28 gennaio 1714. Il suddetto personaggio potrebbe essere il “Giulio d’Alesandro” citato in qualità di barone-feudatario nell’opera “Nuova situazione de Pagamenti fiscali de carlini 42 a foco delle Provincie del Regno di Napoli & Adohi de Baroni, e Feudatarij” fatta dal primo gennaio 1669 per la Regia Camera della Sommaria su ordine di D.Pietro Antonio de Aragona.
Giulio d’Alessandro, difatti, viene menzionato per la dovuta tassazione in quanto titolare delle terre di Alanno (pg.391), Brittoli (pg.392), Celera (pg.394), Catignano(pg.396), Civita Quana e Ginestra (pg.413).
La tassazione da pagare era per “adoha” (contributo fiscale al servizio militare in cambio della sua esenzione) e “portolania”(aggravio fiscale per la gestione delle riscossioni d’imposte a favore della Corona). Il di lui fratello Antonio, nato a Taranto l'1 febbraio 1666, vestì l'abito del cavaliere professo dell'Ordine di Malta nel 1686 presso il Priorato di Capua.
I d’Alessandro della Castellina si imparentarono nel ‘700 con i d’Alessandro di Pescolanciano (matrimonio tra il duca Andrea II della Castellina e Francesca dei Pescolanciano) ed il ramo si estinse per mancanza di eredi maschi a metà ‘700 nella figura dell’arcivescovo Luigi d’Alessandro. La sorella Anna (n.8 gennaio 1649) divenne monaca nel 1665, mentre il fratello Alessandro fu giudice della corte della Bagliva nel 1711.Difatti,
la discendenza, formata da 6 figli, di Giulio Cesare chiuse la linea dei d'Alessandro della Castellina nel 1770. Andrea II, nato a fine XVII secolo, il 14 aprile 1720 (S.Maria Vergine) sposò Francesca d'Alessandro del ramo di Pescolanciano, figlia del duca Giuseppe, onde favorire un potenziamento delle due Case e garantire quella continuità genealogica e patrimoniale al ceppo dei d'Alessandro, come avvenne per la linea di Cardito. Per tale matrimonio fu, quindi, garantita una significativa dote matrimoniale a D.Francesca, da parte dei Pescolanciano. Andrea II rivestì l'incarico di revisore del Tribunale di Revisione, il 16 luglio 1726, nonché fu deputato per il sedile di Porto della Deputazione dei Capitoli, Grazie e Privilegi nel 1729. Morì senza figli nel 1754 ed il titolo passò al fratello religioso D.Luigi.Difatti, gli altri suoi fratelli Antonio e Gio.Battista, che fu podestà dei Presidi di Toscana tra il 1733-45 e poi Presidente della Regia Camera nel 1769, morirono celibi. La sorella Lucrezia sposò il 3 aprile 1703 in S.Giovanni Maggiore, D.Francesco Saverio Amalfitani, marchese di Crucoli, mentre Francesca, che con la detta sorella risultavano ancora patrizie ascritte al sedil di Porto, sposò il 23 febbraio 1702 in S.Maria Maggiore, Gio.Battista Zunica, principe di Chianca. Con tale matrimonio si garantì,per decisione non consona alle consuetudini familiari, che il titolo ducale di Castellina passasse agli Zunica nella persona del loro figlio Orazio II di Lucera, dopo la morte dello zio D.Luigi(1770).L’iscrizione della famiglia d’Alessandro al sedile di Porto era ancora in auge alla data del 1725, come testimoniò lo storico Lumaga (G.Lumaga,Teatro della Nobiltà dell’Europa.., Napoli 1725,p.18). Con la scomparsa dei d’Alessandro della Castellina, il ramo di Pescolanciano, con il duca ceramologo Pasquale Maria, cercò di ottenere la reiscrizione al seggio di Porto, in quanto la famiglia risultò decaduta con verbale di delibera del 21 novembre 1795 per notar Giuseppe Macchi,segretario del sedile.La reintegra fu presentata con quella dei Caravita di Sirignano nell’ottocento (questi la ottennero con real dispaccio del 31 ott.1804), necessitando corposa documentazione recuperata anche a Roma. Ad oggi non è certa detta reiscrizione al seggio di Porto, mentre fu confermata quella relativa alla famiglia nel Registro delle Famiglie Nobili Feudatarie.
Nato a Portici il 19 giugno 1693, da Giulio Cesare, IV° duca della Castellina sul Biferno, e Antonia Capace. Quartogenito dei fratelli Andrea II° (V° duca della Castellina e sposo di Francesca d’Alessandro di Pescolanciano, senza prole), Antonio e Gio.Battista (morti celibi) fu penultimo intestatario del suddetto titolo ducale, poi passato alla sorella Francesca, sposa di Gio.Battista Zunica.
- Il 19 settembre 1716 fu promosso all’ordine sacerdotale;
- 23 marzo 1732 fu eletto arcivescovo di Santa Severina (Calabria Ultra);
- 11 maggio 1732 ricevette la consacrazione episcopale in Roma dal cardinale Antonio Saverio Gentili;
- Eresse il Monte di Pietà di Santa Severina;
- 9 giugno 1732 papa Clemente XII Corsini gli concesse il “pallio”;
- 15 luglio 1743, sciolto dal vincolo di Santa Severina ed autorizzato a conservare il titolo arcivescovile, fu traslato “vescovo di Alessano”(Terra d’Otranto).Pubblica nel medesimo anno una “Lettera Pastorale”;
- Restaurò, dopo la sua nomina, la cattedrale ed il palazzo vescovile di Alessano;
- 14 novembre 1751 papa Benedetto XIV Lambertini lo chiamò a far parte del collegio dei patriarchi, arcivescovi e vescovi assistenti al Soglio Pontificio;
- 16 settembre 1754, sciolto dal vincolo di Alessano, fu traslato arcivescovo di Bari;
- 16 settembre 1754 lo stesso papa Benedetto XIV Lambertini gli concesse il “pallio”;
- Successivamente eresse anche il Monte di Pietà di Bari, nel rispetto di un’antica tradizione familiare che vide il suo antenato Gio.Battista, I° duca della Castellina, tra i cavalieri fondatori del Pio Monte della Misericordia in Napoli;
- Il 28 gennaio 1770 morì a Bari, ove venne sepolto in cattedrale ed il titolo si estinse nell’ultima esponente del ramo d’Alessandro della Castellina, la sorella donna Francesca.
Lo stemma, del leone con banda attraversante e 3 stelle ad otto punte e’ visibile nella seguente pubblicazione :
“REGIONE PUGLIA, ASSESSORATO ALLA CULTURA-UNIONE REGIONALE DEI CENTRI DI RICERCHE STORICHE ARTISTICHE ARCHEOLOGICHE E SPELEOLOGICHE DI PUGLIA, Cronotassi, iconografia ed araldica dell’episcopato pugliese, Bari 1984 p.378, nn.46.13-46.14 e pp.82,105”.
Inoltre, notizie si ricavano:
R.RITZLER-P.SEFRIN, Hierarchia cattolica medii et recentioris aevi, IV, Patavini 1958, pp.75,116,378
In detto feudo, appartenuto a varie famiglie nobili nel corso dei secoli (Pietravalle, Galluccio, Di Capua, Lombardo, Mendozza, Nardò, de Regina, Ceva Grimaldi, Caracciolo di Torella) si andò affermando un nucleo della famiglia d’Alessandro (di cui non si rinviene l’origine ad oggi) nella seconda metà del ‘700 con Giovanni d’Alessandro, possidente, che sposò Vittoria Moffa. Una folta discendenza è seguita nel corso dell’800 e ‘900, con esponenti occupati nella proprietà agricola (come Nicola Maria, 1805-1876,coniuge di Rosaria d’Alessandro), nonché nella vita religiosa (arciprete Vincenzo,1900) o nell’amministrazione cittadina (il sindaco Antonio Maria, dal 1835-37,1845-46,1856-59), come attesta lo studioso Masciotta (G.Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, il Circondario di Campobasso,Vol.II, Napoli 1915,p.180). Giovanni Battista d’Alessandro, poi, acquisì, con atto governativo di re Ferdinando II, nel 1850 il locale castello del XIII° secolo di Gambatesa, finemente affrescato con dipinti cinquecenteschi, posto sull’altura del colle Serrone. Fu questa la residenza di detta famiglia, fino agli anni ’70 del novecento, quando subentrò nella proprietà la Sovraintendenza Archeologica-Beni Arch. e storici del Molise. Tra gli ultimi discendenti si annovera il dr.Francesco d’Alessandro.
L’insediamento dei d’Alessandro con locale palazzotto di famiglia si ritiene risalire intorno al 1690. Anche per tale località il Masciotta (Il Molise..op.cit.p.403) annovera vari esponenti di detto nucleo familiare con incarichi religiosi ed amministrativi. Tra gli arcipreti, vissuti tra il ‘600 ed il ‘700, vi furono Marcantonio,1642-48, Giuseppe,1670-1703. Mentre tra i sindaci di Tufara vi furono Vincenzo, 1865-67, Nicola, 1905-1910.